«È tardi.»
«Come vuoi.»
Ella andò verso la porta del salottino, chiamò, e siccome nessuno rispondeva, s’azzardò a scender le scale, ansando lievemente, quasi s’avventurasse nell’improvvisa esplorazione di un mondo sconosciuto e pieno di occulti pericoli.
Stefano udì l’armoniosa voce, che chiamava Serafina, allontanarsi, scendere, risuonare per tutta la casa; e solo allora poté, nella mente annebbiata da una gran debolezza fisica, rispondere alla domanda che faceva a se stesso: “Perché ho fatto venir Maria?”.
La vibrazione della voce armoniosa, che si perdeva nel grigio silenzio della scala e negli angoli delle stanze deserte, gli diede la sincera risposta, ed egli sentì nitidamente che aveva mentito a se stesso ed agli altri dicendo d’aver desiderato la presenza di Maria soltanto per curarlo e guardar la casa durante le sue ore di febbre.
Arrossì, provando una sensazione di caldo alle orecchie e alle palpebre, e un tenue sudore gli inumidì le palme delle mani, appena egli fece a se stesso la rivelazione del suo desiderio: e il desiderio ineffabile e indistinto che gli aveva fatto chiamar Maria era di sentir la voce di lei vibrare appunto così per la triste casa piena di tedio e di disordine, vivificandola nei suoi angoli più segreti e abbandonati.
«Babbo», disse con la sua voce sommessa un po’ rauca, guardando il vecchio con gli occhi socchiusi, «cosa vi sembra?»
«Sembra buona.»
«Fatemi un piacere: restate a pranzare qui sopra con lei. Fatemi compagnia.»
Don Piane pensò ai cani ed ai gatti, e stette indeciso sulla compagnia da preferire. Farli salire, almeno i gatti?
Acconsentì, ma per aver la compagnia dei gatti cominciò con fine accorgimento a riferir la simpatia che anche la nuora diceva di provare per quelli.
“Che c’entra?”, si domandò Stefano, ma non fece alcuna osservazione, tutto beato che almeno per il momento Serafina non avesse campo di sobillare don Piane contro Maria.
Con l’ultima linea di sole che si spegneva sul pavimento, penetrava un caldo e fragrante alito di brezza che scompigliava i capelli di Maria, ai quali la vivissima luce del verone dava un’irradiazione di rame.
Per tener lieto il vecchio ella parlava e rideva come una fanciulla, ma continuamente volgeva ogni tanto gli occhi verso Stefano: e in quello sfondo di luce vivissima che le bruniva i capelli e le lumeggiava i fini lineamenti, la linea delicata e ridente del labbro superiore dava a tutto il grazioso volto una gaia espressione infantile; e il neo nell’angolo dell’occhio, sprofondandosi nella fossetta che ad ogni sorriso si fermava, accresceva l’incanto del novello fascino.
Sollevato dai cuscini accomodati dietro le sue spalle, con un caldo tepore di convalescente nel sangue rianimato, Stefano guardava: e Maria, che egli la sera prima aveva ritenuta incapace di un giocondo sorriso, ora gli appariva sotto un nuovo aspetto, palpitante di giovinezza e di vita. Era forse l’ambiente, l’effetto della nuova luce che la trasformava? Egli non seppe spiegarselo, ma le si sentì più vicino; gli parve che il fantasma del morto si dissolvesse nella vivida luminosità del balcone, e si lasciò nuovamente prendere dagli ineffabili desideri della sera prima.
Dopo il pranzo Maria indusse don Piane a far un po’ di siesta sulla ottomana del salottino.
«Va bene?», domandò poi rientrando e rivolgendosi a Stefano.
«Sì, sì», diss’egli come destandosi.
La seconda domestica, che aveva servito a tavola, una donna di media età, dal volto pallido, molle e vaiuolato, e con occhi azzurri loschi, che si rivolgevano 16
sempre al punto contrario a quello ove realmente fissavano, sparecchiò sgarbatamente e col piede respinse i gatti che si leccavano il musetto scuotendo la testina da una parte all’altra.
«Ortensia», disse don Piane con voce imperativa, «cammina e parla sottovoce.»
«Cominci lei a non gridare!», osservò Ortensia: tuttavia, più obbediente di Serafina, camminò piano, portando via i piatti sul braccio, e chiuse con sommo garbo le porte.
Maria socchiuse allora il balcone e tornò presso Stefano chiedendogli:
«Che vuoi? da leggere forse?».
Ma egli aveva letto la sera innanzi tutti i suoi giornali, e la posta non arrivava fino al pomeriggio. Avrebbe voluto le mani di lei, avrebbe voluto portarsele alla fronte, e sollevando gli occhi leggere negli occhi di lei la spiegazione dei misteriosi sentimenti ch’ella destava nel suo cuore di ammalato e nei suoi nervi ancor vibranti per le scosse della febbre notturna. Il desiderio lo vinceva talmente, che stese la mano per afferrar quella di Maria; ma pensò paurosamente: “E se poi se ne va?”, e chiuse gli occhi per sfuggire alla tentazione.
Tutta la sera passò tranquilla; don Piane dormì e disse, svegliandosi, di aver sognato il gattino grigio di Maria; poi volle scender con lei nell’orto, e le mostrò, con improvvisa tristezza negli occhi, l’alto muro giallo del cortile di Silvestra; poi la condusse in fondo, presso una larga vasca ombreggiata da due salici e vicina al muro occidentale, assiepato da rovi, che divideva l’orto dalla campagna.
Ella si fermò sotto i salici, colpita da uno straziante ricordo. L’acqua bassa che rabbrividiva nella vasca, d’un bel color glauco luminoso, rifletteva i pallidi salici, perlati dall’argenteo tramonto. Pareva un quadro di cristallo, su cui, dipinti misteriosamente, tremassero alberi dai rami argentei e dalle foglie di perle.
Al disopra del pittoresco muro, verde per l’umidità e pei rovi, si stendeva il cielo, un dolce e pigro cielo autunnale, tutto bianco solcato da lunghe e stagnanti linee d’argento, da striscie grigio perla, da pennellate d’un bigio soave e sbiadito: sembrava una lontana pianura intraveduta fra vapori, e il sole calante, pallido e senza raggi in quella bianca luminosità, somigliava a un grande e radioso disco di luna al tramonto.
Dai salici stillavano grosse e rade gocce e cadendo sulla vasca insieme a qualche silenziosa foglia descrivevano rapidi e molteplici cerchi che turbavano la tremula superficie del quadro cristallino; in un angolo un insetto acquatico s’aggirava attorno a se stesso muovendo rapidamente la piccola coda, e circondandosi così di una ruota argentea.
Maria s’affacciò sulla vasca e vide il suo viso, illuminato dal pallido sole, riflesso dalla glauca specchiera; guardò curiosamente, come una bimba, e chiese alla sua immagine: «Perché siamo qui?».
Don Piane aveva col piede crudelmente schiacciato una cavalletta verde, e con la punta del bastone scavava una piccola fossa per seppellirla.
«Perché siamo qui… ora?», amaramente ripeté Maria, china sullo specchio dell’acqua.
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