La seconda volta aprì il balcone per guardare se albeggiava: ma era ancor notte, la luna splendeva verso lo zenit in una zona di luminosità celeste-mare, e uno strato diafano e ondulato di nuvole, dietro cui s’intravedeva il cielo azzurro, velava tutto il resto del firmamento: nell’orto addormentato era un albore bianco e gelido di neve.

Ella tornò a letto rabbrividendo, più che mai triste e disperata, e pregò che Stefano guarisse l’indomani o che si ammalasse anche lei, onde aver una scusa per andarsene e non tornare più in casa Arca.

III.

Per una settimana proseguì questa vita. Don Piane s’alzava da letto con tanto di muso, e passava le giornate suggestionato or da Maria, or dalle domestiche.

Gli Arca avevano soltanto servi pastori, che, specialmente in autunno, ritornavano raramente in paese.

Il gran patrimonio di don Piane consisteva in vastissime tancas, delle quali una parte era occupata dal proprio bestiame, parte era affittata e parte infine era data a mezzadria per le seminagioni. Quindi ben poche erano le faccende domestiche, mentre in altri tempi, essendo numerosa la famiglia e straordinario il numero delle persone di servizio, la casa pareva un piccolo inferno senza requie, animata da un viavai indescrivibile e dal forno sempre acceso per la cottura del pane.

Ora, dopo la morte di Carlo ed il ritiro di Silvestra, la casa sembrava caduta in una silenziosa atonia piena di segreti dolori e di misteriose paure, appena svegliato dai gridi delle domestiche, dalle corse e dai giuochi dei cani favoriti e dal muto andirivieni dei gatti.

Di solito Stefano sbrigava i suoi affari in uno studio al pian terreno; e le persone da lui ricevute passavano poi nel salotto da pranzo per salutare e confabulare con don Piane.

Dopo una settimana Maria aveva quasi preso possesso della casa, vincendo la stanchezza, il malessere, il fastidio che quella vita le dava, e spinta dall’irritazione per il fare e disfare insolente delle fantesche. Solo verso sera ella si poteva recare un momentino a casa sua, dove riposava fra le soavi parole del padre, gli arditi consigli della madre e le carezze del gattino, che, salendole sulla spalla, sfregandole il velluto grigio del dorso sulle guancie e sul collo e leccandole le orecchie con la rosea linguetta aspra, le dava un bizzarro piacere.

«Me lo piglio?», disse una notte.

«No, che lo strangolano quelle streghe!», osservò zia Larenta adirata.

Rientrando in casa Arca, accompagnata dalla vecchia domestica, una sera Maria vide Serafina uscire con un involto nel grembiale.

«Vorrei sapere che ha e dove va», disse ritirandosi vicino al muro.

Cosa fece zia Larenta? pedinò la domestica, e l’indomani sera, quando Maria fu a casa sua, la vecchia disse, chiudendo malignamente un occhio:

«Sa dov’è andata quella donna? A casa sua. E sa cosa portava? Una pezza di formaggio».

«Come lo sai?»

«Ho ascoltato alla sua porta», disse semplicemente zia Larenta, che aveva una speciale abilità di origliare per conto suo e degli altri.

«Lasciate fare a me, ora!», esclamò Maria sollevando la mano aperta.

L’indomani Stefano lasciò il letto: era quasi guarito, e della sua malattia il porpureo medico diede questa semplice spiegazione: 19

«Donna Maria, senta bene. Prima di tutto la perniciosa colse il nostro malato, che, naturalmente, gli lasciò uno strascico di debolezza e di disturbi viscerali. Ma se lui si fosse attenuto alle mie prescrizioni la convalescenza sarebbe stata breve e completa: no, lui invece di nuovo a cavallo, a caccia, a pigliar aria cattiva, a far cattive digestioni, ed a… quello che sa lei!», e portandosi furbescamente il pollice destro alle labbra accennò l’azione del bere. Maria sorrise, ricordando il suo vino giallo. «Naturalmente doveva venir questa orribile settimana di febbri gastriche: ma, sa, è come il tempo in questa stagione; vede, dopo l’estate c’è stato un periodo di fresco, ora c’è l’estate di San Martino, poi ritorna il fresco e non se ne parla più. Lei mi capisce benissimo.»

«Ma sì!», assicurò ella, benché veramente non avesse capito bene.

«Ora», conchiuse il dottore, «lascio Stefano in mani sue: lo faccia star in regola per qualche giorno ancora e tutto passerà. Del resto era cosa da nulla,»

Maria, lo stesso giorno, sorridendo, riferì tutto a Stefano, che s’era messo a scrivere una lettera nella sua camera.

Era diventato magrissimo, con gli occhi infossati, fissi, circondati da un lividore che gli saliva fino alle tempie; la sua mano tremante stentava a scrivere; tutto il suo aspetto era così cadaverico che Maria, pur vedendolo alzato e vestito, faceva grandi sforzi per celare il disgusto fisico ch’egli ancora le causava.

Vedendogli tremar la mano, sul cui bianchissimo dorso si scorgevano i tendini attraversati dalle vene verdastre, ella cessò di sorridere.