Ricordò che una volta il morto le aveva dato dei versi, intitolati La vasca, nei quali le narrava come da bimbi la passione sua e del fratello era quel piccolo lago verde, dove pescavano con ami di canna e gettavano al soffio dei venti fragili flotte di carta, o di sughero o ferula, destinate a misteriose navigazioni ed a facili naufragi. Più tardi, durante le vacanze estive, egli era venuto, adolescente studioso, ad assidersi all’ombra dei salici, con un libro di idilli latini fra le mani; più tardi ancora aveva fantasticato al riflesso del cielo sopra il muro smeraldino, e in certi vesperi glauchi e liquidi come l’acqua della vasca, mentre fra le pallide fronde dei salici palpitavano le scintille della luna nuova, il poeta aveva con un sottile gambo d’asfodelo tracciato sulla diafana pagina delle acque un nome caro: Maria.
Conchiudeva la poesia:
Se tu un giorno verrai sotto i paterni
salici, guarda: forse l’amoroso
sguardo de l’acque nel misterioso
seno il pio nome ancora leggerà!
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I versi non erano molto eleganti, ma per Maria erano un capolavoro d’arte, e, rileggendoli ora nel «misterioso seno delle acque» sotto il riflesso del pallido cielo autunnale, ripeteva amaramente: «Perché son venuta? e perché egli non è più qui, ora che ci son io?».
L’angoscia inesprimibile del desiderio di ciò che non era più, desiderio struggente nella sua disperazione, la riprese: a poco a poco i versi sparvero nella trasparenza dell’acqua, l’immagine si coprì di un velo grigio, e sul capovolto riflesso dei salici passò un bagliore di nuvole vitree. Ella piangeva.
Don Piane intanto finì di seppellire la sua vittima, vi calcò sopra un piede, mormorando parole di maledizione contro tutte le cavallette del mondo.
Quando rientrarono in casa Maria aveva di nuovo l’espressione stanca e dolente della sera prima.
Stefano rabbrividiva di freddo, invaso dal disgusto e dall’ansia affannosa della febbre imminente; e nella luce dello smorto tramonto vide Maria così muta e triste che ne provò una grande melanconia.
Venne il medico, un vecchio robusto e vermiglio che non trovava grave alcuna malattia, e vennero poche persone amiche; ma il malato taceva, col volto grigio pieno di una espressione dolorosa di ribrezzo e paura; Maria era raccolta in rigido riserbo e don Piane pregava.
Dopo una mezz’ora di imbarazzo i visitatori se ne andarono, e la camera restò immersa nel silenzio e nella luce morente del vespero.
Era ancor presto per accendere i lumi, ma la penombra invadeva già il letto, e Stefano gemeva sommessamente nel primo incubo della febbre: a misura che l’ombra cresceva gli sembrava che il volto gli diventasse nero e la testa gli si ingrossasse e aggravasse enormemente: era uno spasimo sottile, esteso, indicibile, che gli serpeggiava per tutte le membra, slogandogli dolorosamente ogni giuntura e scuotendogli ogni nervo; una puntura senza tregua che gli frugava tutti i pori.
A un tratto gli sembrò che un uomo altissimo, con un grande occhio rosso in mezzo alla fronte, fissandolo acutamente, si avanzasse fino al centro della camera; e ne provò terrore.
«Levátelo… Levátelo…», disse piano.
«Chi?», domandò Maria.
«Quell’uomo… quell’occhio… levátelo, mandatelo via presto…», ripeté alzando la voce, e si dimenava, e faceva schioccare le labbra. Poi gridò con angoscia: «Levátelo!».
Maria capì che l’uomo spaventoso era il lume e lo portò via: nella penombra il febbricitante parve calmarsi e si abbandonò col viso rivolto al soffitto e la bocca aperta.
Allora Maria pensò di recarsi un momento in casa sua, e lasciò Ortensia a vigilar il malato; al ritorno però trovò don Piane tutto cambiato a suo riguardo, e capì che Serafina, profittando della sua assenza, lo aveva nuovamente sobillato. Suocero e nuora cenarono freddamente nella stanza da pranzo, severa e un po’ triste con la sua tappezzeria rossa e i mobili di noce cui la luce della lampada dava riflessi d’oro brunito. Davanti alla musoneria del vecchio, e sotto il maligno sguardo di Serafina, Maria si sentiva nuovamente a disagio, e l’andirivieni della giornata e lo spostamento delle sue abitudini le causavano un vago capogiro, una debolezza estrema che non le permetteva neppure di essere amabile per cattivarsi la benevolenza del suocero. Forse aveva la febbre, perché sentiva le piante dei piedi ardere e pulsare fortemente.
Con indifferenza si lasciò portar via don Piane, che non le diede neanche la buona notte, e risalì ansando le scale. Stefano gemeva e sudava per la febbre già alta e per il brodo bollente che Ortensia gli aveva fatto sorbire. Maria gli porse da bere, poi gli toccò la fronte, e ritraendo la mano lievemente umida per il sudore, provò un profondo senso di ribrezzo fisico: e tutta la figura di lui, disfatta, traspirante l’alito impuro della febbre, le diede un acuto, invincibile disgusto.
Coricata sull’ottomana del salottino ridotta a letto continuò a sentire una nausea, una stanchezza, nervoso irritamento contro gli altri e contro se stessa che era venuta a curare questa gente sciocca ed egoista fino allora avversa e che ricompensava con sgarbi e antipatia i suoi fastidi, come se ella fosse venuta a recare disturbo. Nel penoso dormiveglia tutti i passati rancori 18
l’assalsero; tutte le impressioni della giornata le si riprodussero confusamente nel pensiero; e sopra tutte rivide la vasca e l’acqua a scaglie verdognole, il cui tremolìo pareva un sorriso di scherno.
“Perché son venuta?”, si ripeteva. Il cambiamento e quindi il disagio del letto, l’affanno del malato nell’attigua camera, il rosso chiarore della lampada notturna non la lasciarono riposare. Due volte, Stefano si lamentò ed ella, piuttosto che chiamar Ortensia, che per l’occasione dormiva in un attiguo stanzino, si alzò, e gli porse da bere. E sempre provava un profondo disgusto fisico e morale nell’avvicinarsi e nel toccare il febbricitante.
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