Il vecchio si volse stupito e commosso, sembrandogli impossibile che suo figlio dovesse ridere ancora; poi si alzò, si sentì rinascere, fece portare il lume e si lasciò dolcemente condur via, sicuro che Stefano era risanato.

Ma l’indomani e nei giorni seguenti la febbre perniciosa, sebbene benigna, continuò a tormentare il giovane; e una mattina si sparse persino la voce che egli stesse per morire.

Quel giorno Maria, la cognata, benché sofferente anch’essa e dal suo lutto rigorosissimo costretta a vivere ritirata, si decise a visitare il malato.

Maria era nobile, ma non ricca. Carlo Arca l’aveva sposata contro la volontà dei suoi, tanto più avidi di ricchezze, quanto più ne possedevano; e, se non odio, freddezza e disamore regnava fra gli Arca e la giovine vedova che mai cercavano e mai veniva a visitarli.

Quando ella venne a visitare il cognato creduto moribondo, don Piane, che pur recitava il Rosario a Nostra Signora della Salute e a Nostra Signora della Misericordia, l’accolse con una visibile smorfia, e poco mancò che non le proibisse d’entrare dal malato. E anche Stefano non doveva essere poi molto aggravato, perché si sentì contrariato e chiuse gli occhi nel veder Maria.

Ella però, sebbene per il suo gravissimo duolo assumesse un contegno rigido e duro, vedendo Stefano mal ridotto, si commosse. Per più d’un’ora tenne un’affettuosa compagnia al malato, lo distrasse, gli parlò amabilmente di cento piccole cose come se fossero stati sempre in ottima relazione; sicché egli, da prima infastidito e più sofferente in apparenza che in realtà, a poco a poco cominciò a sentir dolcezza per quella visita non attesa, né desiderata. Gli parve la miglior visita ricevuta in tutti quei giorni d’incubi tormentosi, e avrebbe voluto prolungarla; e quando Maria fu per andarsene le disse supplichevole:

«Ritorna domani!».

Ma ella non ritornò, perché dall’indomani appunto egli migliorò, uscì da ogni possibile pericolo ed entrò in convalescenza. Don Piane, fra le sue preghiere e i suoi scongiuri, per otto o dieci giorni ebbe di che mormorare della visita di Maria, facendone poco benevoli commenti con le domestiche e le persone che venivano a trovarlo: Stefano invece parve presto dimenticarsene.

Egli trascorse una breve convalescenza, poi riprese le sue cavalcate e le sue caccie, spingendosi attraverso l’altipiano fino alle solitarie montagne d’Orune e di Lula; ma non si rimetteva mai perfettamente. Era di un umore triste ed inquietante; l’autunno gli pesava sul capo e sulla persona debole ancora; e ogni sera, a misura che svaniva la luce, i pensieri gli si annebbiavano, una vertigine cupa e pesante lo tormentava. La vita gli sembrava buia e desolata, e ogni abitudine, prima cara, lo infastidiva; ogni pensiero, che prima poteva 2

essere stato dolce o piacevole, ora gli si mutava in misterioso tormento: gli pareva talvolta d’essere profondamente infelice e che in nessun luogo, in nessun uomo esistesse più la felicità; e sentiva gran compassione, mista a disprezzo, per tutte le persone e le cose. Spesso desiderava di morire; ma appena formulato questo desiderio se ne disgustava angosciosamente, e del resto, per quanto si sforzasse a immaginar la fine d’ogni sua vitalità, gli sembrava impossibile il poter morire ancor così giovane e forte.

Ma appunto pensando alla vita, al tempo indeterminato che ancora gli restava da vivere, un’altra sorta di disgusto, meno angoscioso, ma più desolato, lo assaliva: era la noia e l’indifferenza profonda per ogni cosa, per il passato, il presente e l’avvenire; era l’orrenda domanda del poeta dei Fiori del male: Oggi, domani e posdomani ancora

Viver dovrò?…

In queste grigie ore di sconforto, più fisico che morale, Stefano vedeva attraverso un velo d’uggiosi vapori la sua vita trascorsa inutilmente, gli studi compiuti di mala voglia, l’esistenza brillante e vuota e viziosa di studente ricco, che di anno in anno aveva trascinato per le grandi Università del continente, il suo tedio, la sua nostalgia, la posa del suo scetticismo e la sincera nervosità di montanaro sardo, spostato in un ambiente ove non erano i soffi ardenti dei partiti nemici, le caccie vere ed ardite (non le irrisorie caccie alla volpe), le cavalcate, la prepotenza e la preponderanza della sua figura di primate da villaggio. Ma ora anche questa figura, le sue passioni violente, i viaggi, i selvaggi piaceri, tutta la vita strana condotta sino allora, ogni memoria in fine gli appariva disgustosa attraverso il fumoso velo che gli annebbiava il pensiero. E, oltre il disgusto, provava compassione per quanto lo circondava nella realtà, nei sogni e nei ricordi.

La casa ch’egli stesso, al ritorno dagli studi, aveva fatto rimodernare e arredare con quel lusso chiassoso dei ricchi sardi, gli sembrava brutta e barocca; e dava ragione a don Piane che, borbottando contro le innovazioni, se ne stava sempre in cucina o sotto i portici del cortile.

Cos’erano questi ninnoli, questi quadri, questi pezzi di stoffa per terra e per le finestre? Sciocchezze, sciocchezze…

Eppure la casa degli Arca, che si ergeva sull’estremo limite del paese, era una bella costruzione pisana del secolo XIV, in pietra schistosa, a cui il tempo accresceva lo smalto bruno rossastro, scintillante al sole ed alla luna: sorgeva esile e forte, non priva di una certa eleganza antica, con piccole finestre bifore, dai nuovi davanzali di lavagna, munite di inferriata quelle del pian terreno; e con una gradinata rossastra che metteva alla porta di legno bianco lavorato.

Dietro la casa si elevava un noce, la cui poderosa chioma pareva sovrastasse le cerule montagne dell’orizzonte: ad ovest si stendeva il grosso villaggio, steso al sole come un cane accidioso, dalle casette di schisto, intersecate da orti, ombreggiate da noci e da radi pioppi, le cui cime chiare rabbrividivano sull’azzurro denso dell’aria come ciuffi di piume grigie su esili canne di platino.

Sempre magnifica era parsa a Stefano la posizione della sua casa, che godeva tutti i vantaggi della campagna e del villaggio, ben soleggiata e poco esposta alle curiosità dei vicini: ora invece lo infastidiva quella serena solitudine campestre, quell’abbondanza di luce, d’aria e di silenzio che lo circondava. Del resto meschina, noiosa e ridicola gli pareva la vita del natìo paese: ogni cosa, che prima lo interessava, ora gli causava strane sensazioni di compassione e d’indifferenza; i suoi compaesani, uomini ruvidi e bronzini, donnine baroccamente adorne di lunghe cuffie e di corte sottane orlate di panno verde, gli sembravano presso a poco tante povere bestiuole, talvolta innocue, tal’altra velenose. Ma neppur lontano, nelle grandi città, nell’alta vita dei felici e dei consapevoli, dei gentiluomini profumati e delle dame miniate e vestite di seta, neppure là scorgeva nulla di buono, di serio o di piacevole.

Una suprema indifferenza poi lo assaliva se pensava ai suoi affari urgenti ed incalzanti, ai suoi cavalli, ai servi, ai cani, a quanto lo circondava. Eppure in certe dolci sere di quel melanconico autunno, costretto a starsene rinchiuso 3

in casa con l’infinita tristezza che lo intorpidiva, desiderii misteriosi di cose ignote, introvabili, che l’annebbiato pensiero non riusciva a definire, gli davano come una ineffabile volontà di piangere.

In una di quelle sere, vestito di nero, era sdraiato sulla bassa ottomana turchina del salottino attiguo alla camera da letto, e scorreva alcuni giornali posti sopra un tavolinetto di sughero traforato. La sua bella e fiera testa dai biondi capelli irti affondava dolcemente e spiccava sul velluto nero di un cuscino, lavoro e dono della figlia d’un suo parente accasato oltremare. Il cuscino era morbido e tiepido, e il velluto carezzava la nuca e la guancia di Stefano con la dolcezza d’una mano femminile.