Egli vedeva i giornali e i caratteri attraverso una tenue nebbia giallastra; ciò che leggeva lo interessava, ma nonostante, la mano lasciava con stanca indifferenza cadere i fogli sul tappeto formato da una gran pelle bionda di cerva, orlata di scarlatto dentellato e adorna d’alte e ramose corna color bronzo.
Sonnecchiava, sdraiato con eleganza sulla pelle, un bellissimo cane da caccia, nero, lucente, chiazzato sul dorso di larghe macchie lattee; al contatto dei fogli lasciati cader dal padrone, scuoteva un po’ la larga coda morbida e provava un brivido che lasciava scorgere il lieve ondulamento delle vertebre. A un certo punto però i giornali cessarono di cadere e Josto poté dormire in pace, mentre il padrone che non leggeva più, cadeva nella tristezza de’ suoi sogni indecifrabili, sul cui sfondo grigio passava, nube sottile, qualche pensiero distinto.
Una notizia della città ove risiedeva il parente lontano, letta in fondo all’ultimo giornale, gli richiamava al pensiero la giovine nipote. I parenti e gli amici gliela assegnavano per isposa, non essendovi in paese alcun partito degno di lui. Egli, che non pensava ad ammogliarsi, non s’era mai fermato a considerare la proposta dei parenti e degli amici; ma in quella sera, in quell’istante di desideri anormali pensò con improvvisa dolcezza alla elegante fanciulla lontana e si domandò se l’avrebbe sposata. Gli parve di sì, e per questa improvvisa decisione volse un po’ la guancia per sentir meglio la tiepida morbidezza del cuscino; allora più distinto e soave ebbe il desiderio di una mano giovane e delicata che, posandoglisi sull’ardente fronte, gliene assorbisse i torbidi umori. L’avrebbe forse risanato, o almeno gli avrebbe dato una dolcezza così profonda da farlo addormentare.
Si sentiva solo, profondamente, desolatamente solo. La malattia aveva fugato anche il suo ultimo capriccio per una bella e facile paesana, il cui ricordo ora gli riusciva disgustoso.
La sera avanzava con la triste dolcezza dei vesperi d’autunno. Dai limpidi vetri del balcone, attraverso le cortine arabescate, il cielo d’occidente, solcato da striscie rosse che sembravano strade tracciate in una cerula lontana pianura, gettava nel salotto una dolce luminosità d’oro pallido. A questo riflesso splendevano di luce rosso-dorata, sempre più dolce e morente, il pianoforte, le cornici dei quadri, i quadri stessi e gli angoli del pavimento a mosaico; un paesaggio ad olio, una pianura in autunno, dalle tinte secche, giallastre, senza figure né alberi, dal cielo diafano ed alto, s’animava, assumendo ombreggiature e lumeggiature indefinite che gli davano perfetta illusione di realtà.
Fuori soffiava il vento, e il fremito sonoro del noce pareva la voce d’una intera foresta gemente al bacio triste dell’autunno; dietro le cortine, in una lontananza di sogno, le montagne melanconiche si profilavano di viola in quello sfondo di freddo crepuscolo.
Una mosca dal corsetto diafano, che pareva un grano di frumento, dalle ali di velo nero, sfumate in verde ed in violetto, sbatteva contro i vetri con monotono mormorìo. La mosca moriva, moriva la luce, la natura, il giorno.
Stefano sentiva una inenarrabile tristezza di agonia in tutte le cose che vedeva, e con gli occhi socchiusi, con tutta la persona abbandonata al dormiveglia d’un sogno melanconico, si lasciava tuttavia andare a tenerezze, a desideri, a rimpianti infiniti. E sopratutto lo vinceva la sensazione della sua grande solitudine.
Suo padre non era che un’ombra, e spesso un’ombra molesta: egli lo amava, lo venerava per tutto ciò che il vecchio aveva sofferto, ma sentiva che spesso don Piane più che a confortarlo lo rattristava. Silvestra poi era come morta per lui e per il mondo.
4
Improvvisamente ricordò l’ultima disgrazia domestica; la morte di Carlo: l’orrenda visione del sanguinoso avvenimento gli passò nitida e triste nella memoria, dando una leggera contrazione nervosa al pallido volto già composto come a sonno nel momentaneo riposo. Per liberarsi dall’improvviso amaro ricordo riaprì gli occhi, e subitamente pensò a Maria, malata per il terrore e il dolore della morte di Carlo.
«Donna Maria sta molto male.»
Da chi, quel giorno stesso, Stefano aveva sentito queste parole? Forse da qualche domestico; non ricordava bene; ma ricordò la visita della cognata e la soavità provata; in un impulso di tardiva riconoscenza desiderò di restituire l’atto pietoso. Non avendo mai varcato la soglia della casa di Maria, dapprima egli si domandò un po’ ironicamente: “Cosa ne penserà donna Maurizia? E mio padre?…”.
Ma a poco a poco lo strano desiderio lo riprese, e gli parve naturale, anzi doveroso soddisfarlo. Che gli importava del giudizio dei parenti? Nel cerchio della sua indifferenza per il passato parve sfumare anche il puntiglioso e sciocco disamore per Maria: restò solo la sensazione buona della visita, e:
“Andrò assolutamente”, disse una voce interna con insolita energia.
Cosa dunque accadeva? Nel periodo strano che attraversava, Stefano non aveva desideri definiti; perché dunque questa volta il desiderio di visitar Maria gli si fissava energicamente in testa? Si rizzò a sedere, e nel movimento che fece destò il cane che stirò una zampa in avanti, scosse la testa e sbadigliò con un leggiero guaito, mostrando i bianchi denti e la grossa lingua color rosa. Poi sollevò gli occhi e fissò Stefano in volto. Spirava tanto intelligente affetto dallo sguardo di Josto, che il padrone sentì improvvisamente rinascere l’affetto per il fedele compagno delle sue caccie, che durante la malattia l’aveva vegliato assiduamente; e chinandosi gli accarezzò il dorso nero e gli tirò lievemente le larghe orecchie.
«Josto, povero Josto!», disse piano, piano, con voce un po’ rauca.
1 comment