Al suo fianco correva un ragazzetto. Mi sorpassò, augurandomi la buona notte. Ebbi la tentazione di parlargli e non lo feci. Risposi al suo saluto con un borbottio senza senso e proseguii la mia strada.
Sul viadotto di Maybury un treno - un fluttuante tumulto di fumo bianco screziato di fiamma, una lunga processione di finestrini illuminati - passò, diretto verso il sud: ciuff ciuff, tum tum, ed era lontano. Un gruppo confuso di persone parlava al cancello di una di quelle case che formano il piccolo e grazioso quartiere di villette chiamato Oriental Terrace. Era tutto così vero e familiare! E dietro di me, era spaventoso, incredibile! Cose simili, mi dissi, non possono succedere.
Forse sono un uomo di umore stravagante. Non so fino a che punto ciò che provo sia condiviso da altri. A volte soffro del più strano senso di distacco da me stesso e dal mondo che mi circonda; mi sembra di osservare tutto dall'esterno, da un punto inconcepibilmente remoto, fuori del tempo e dello spazio, fuori della tragica tensione di tutto. Questa sensazione, quella notte, fu molto forte. Era un altro aspetto del mio sogno.
Ma il guaio era l'assurda incoerenza tra questa serenità e la subita morte che volteggiava laggiù, a tre chilometri appena di distanza. Dai gasometri mi giungeva il rumore dei meccanismi in azione, e le lampade elettriche erano tutte accese. Mi fermai accanto al crocchio di persone.
- Che notizie dalla landa? - domandai.
Accanto al cancello c'erano due uomini e una donna.
- Eh? - fece uno dei due uomini, girandosi.
- Che notizie dalla landa? - dissi.
- E non viene di lì, lei? - domandò l'uomo.
- La gente è ben stupida, quando ne parla, - disse la donna sul cancello. - Che cosa diavolo sta succedendo?
- Non ha sentito niente degli uomini venuti da Marte? - chiesi. - Le creature scese da Marte?
- A sazietà, - rispose la donna sul cancello. - Grazie tante, - e tutti e tre scoppiarono a ridere.
Mi sentii stupido e irritato. Tentai di spiegarmi, e mi accorsi che non riuscivo a raccontare ciò che avevo visto. Essi risero ancora delle mie frasi incoerenti.
- Ne sentirete riparlare, - dissi, e ripresi la mia strada verso casa.
Ero così sconvolto, che mia moglie, non appena entrai, trasalì. Andai nella sala da pranzo, mi sedetti, bevvi un po di vino, e non appena mi riuscì di rimettermi abbastanza in sesto, le raccontai ciò che avevo visto. La cena, una cena fredda, era stata già servita e rimase lì sulla tavola mentre io raccontavo la mia storia.
- C'è però un vantaggio, aggiunsi, per calmare le paure che avevo suscitate. Sono le cose più mollicce che abbia mai visto strisciare sulla terra. Possono restare in quella buca e uccidere la gente che si avvicina, ma non possono uscirne... Che orrore!
- Non pensarci, caro!- - disse mia moglie, corrugando la fronte e posando una mano sulla mia.
- Povero Ogilvy! - feci. - Pensare che è rimasto laggiù, morto!
Mia moglie, almeno, non trovò incredibile la mia storia. Quando la vidi mortalmente pallida, smisi di colpo.
- Possono venire qui - seguitava a ripetere.
Insistei perché bevesse un po di vino, e tentai di rassicurarla.
- Si possono muovere appena - dissi.
Cominciai così a confortare lei, e anche me, ripetendo tutto quello che Ogilvy mi aveva detto circa l'impossibilità, per i marziani, di stabilirsi sulla terra. In particolare mi soffermai sulla difficoltà provocata dalla forza di gravità. Sulla superficie della terra, la forza di gravità è tre volte superiore a quella sulla superficie di Marte. Un marziano, quindi, peserebbe tre volte di più che su Marte, anche se la sua forza muscolare rimanesse la stessa. Il suo corpo, dunque, sarebbe per lui come una cappa di piombo. Quella, infatti, era l'opinione generale. Sia il «Times» sia il «Daily Telegraph», per esempio, il mattino seguente insistevano su questo punto, ed entrambi trascurarono, come feci io, due ovvie influenze modificatrici.
L'atmosfera della terra, lo sappiamo, contiene molto più ossigeno, - se preferite - molto meno argon di quella di Marte.
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