La lettera scarlatta
In copertina: Il bagnante di Valpin
V
on (Jean-Auguste Dominique Ingres, 1808 - Museo del Louvre - Parigi)
INDICE
Introduzione - La vecchia dogana
1.
La porta della prigione
2.
La piazza del mercato
3.
Il riconoscimento
4.
L'incontro
5.
Hester al lavoro
6.
Perla
7.
Il palazzo del governatore
8.
La bambina elfo ed il ministro di Dio
9.
Il cerusico
10.
Il cerusico ed il suo paziente
11.
Nell'intimo di un cuore
12.
La veglia del ministro
13.
Un'altra immagine di Hester
14.
Hester e il medico
15.
Hester e Perla
16.
Una passeggiata nella foresta
17.
Il pastore e la parrocchiana
18.
Un fascio di sole
19.
La bimba accanto al ruscello
20.
Il pastore in un labirinto
21.
Un giorno di festa nella Nuova Inghilterra
22.
La processione
23.
La rivelazione della lettera scarlatta
24.
Conclusione
La vecchia dogana (torna all'indice)
Introduzione a "La lettera scarlatta"
È ben curioso che - pur riluttante a parlare troppo di me e delle mie faccende con gli amici personali, accanto al caminetto - nel rivolgermi al pubblico, per la seconda volta in vita mia, sia travolto da un impulso autobiografico. La prima volta fu tre o quattro anni fa, quando elargii al lettore - imperdonabilmente e per nessun motivo al mondo che potesse essere immaginato dal lettore indulgente o dall'autore importuno - una descrizione di come vivessi nella profonda quiete di un vecchio Presbiterio. E oggi - visto che, a prescindere dai miei meriti, ebbi la fortuna di trovare in quella occasione uno o due persone che mi prestarono orecchio - afferro di nuovo il pubblico per la giacca e parlo della mia esperienza triennale in una dogana. Non fu mai seguito con altrettanta fedeltà l'esempio del famoso "P.P., chierico di questa parrocchia". La verità - sembra - è che, nello spargere i fogli al vento, l'autore non si rivolge ai molti che metteranno da parte il volume o non lo prenderanno mai in mano, bensì ai pochi che lo capiranno meglio degli stessi compagni di scuola o di vita. Alcuni autori, invero, andando ben oltre, si abbandonano a confidenze intime e rivelatrici, che andrebbero rivolte, soltanto ed esclusivamente, all'unico cuore e mente in perfetta intesa con lui, come se il libro stampato, gettato allo sbaraglio nel vasto mondo, avesse la certezza di trovare l'altra metà dell'animo dell'autore, completando così il circolo della sua esistenza in assoluta comunione. Non è però decoroso dire tutto, neppure quando parliamo impersonalmente. Ma - poiché i pensieri intirizziscono e la lingua si intorpidisce, se non si instaura un rapporto autentico fra chi parla e il suo pubblico -, forse è perdonabile immaginare che un amico, buono e sollecito, anche se non strettissimo, stia ad ascoltare quello che diciamo; a questo punto mentre l'innata ritrosia si sgela al calore di tale confortante consapevolezza, possiamo pure cianciare di quanto ci accade intorno e perfino di noi stessi, continuando tuttavia a tenere l'Io intimo dietro il suo velo. Fino a tal punto ed entro tali limiti, è lecito - a mio avviso - essere autobiografici, senza violare i diritti propri e quelli del lettore.
Si vedrà, anche, che questo schizzo della Dogana ha la sua ragion d'essere - di un genere sempre ammesso in letteratura - in quanto spiega come sia venuta in mio possesso un'ampia parte delle pagine successive e fornisce una prova dell'autenticità del racconto ivi contenuto. È questo infatti - il desiderio di mettermi nel ruolo di curatore, o ben poco di più, del racconto più prolisso del volume - questo, e nessun altro, il motivo che mi induce a mettermi in contatto personale con il pubblico. Nel perseguire lo scopo principale, è sembrato lecito, con l'aggiunta di qualche tocco, dare una vaga idea di un tipo di vita finora mai descritto, oltre a ritrarre certi personaggi che vi si muovono, fra i quali - guarda caso - c'era anche l'autore.
Nella mia città natale di Salem, in cima a quello che mezzo secolo fa, ai tempi del vecchio King Derby, era un attivo molo e oggi è una congerie di cadenti magazzini di legno con pochi segni di vita commerciale - anzi nessuno - tranne forse una barca o un brigantino ormeggiati a metà della sua malinconica lunghezza, intenti a scaricare pellami, oppure, più vicino, una goletta della Nuova Scozia, in procinto di sbarcare il suo carico di legna da ardere - in cima, dicevo, a questo molo in rovina, che spesso la marea ricopre e lungo il quale, alla base e sul retro di una fila di edifici, si scorge in un bordo di erba stentata il solco di molti anni inoperosi - qui, con le finestre anteriori che si affacciano su questo panorama non molto confortante e più in là sul porto, sorge uno spazioso edificio di mattoni. Sulla sommità del tetto, per tre ore e mezzo precise ogni mattina, sventola oppure si affloscia, a seconda della brezza o della bonaccia, la bandiera della Repubblica, ma con le tredici strisce poste verticalmente anziché orizzontalmente, a indicare che qui ha sede un ufficio civile, non militare, del governo dello Zio Sam. La facciata è ornata da un portico di una mezza dozzina di colonne di legno a sostegno di un balcone, sotto il quale scende verso la strada una rampa di ampi gradini di granito.
Sull'entrata si libra un enorme esemplare dell'aquila americana ad ali spiegate, con uno scudo contro il petto e, se ricordo bene, stretto negli artigli, un fascio di fulmini mescolati a frecce acuminate. Con il consueto caratteraccio che lo contraddistingue, l'infelice pennuto con il suo becco feroce, lo sguardo fiero, la posa truculenta, nel suo insieme sembra minacciare brutti guai alla pacifica comunità e soprattutto ammonire i cittadini, che ci tengono a restare incolumi, a non intrufolarsi nell'edificio all'ombra delle sue ali. Eppure, malgrado la sua aria bisbetica, proprio in questo istante, molti cercano di proteggersi sotto l'ala dell'aquila federale, immaginando - suppongo - che il suo petto abbia tutta la morbidezza e tutto il tepore di un cuscino di piume. Ma lungi dall'essere tenera perfino quando è del suo miglior umore, prima o poi - più spesso prima che poi - finisce con il cacciare i piccoli implumi con un graffio dell'artiglio, un colpo del becco o una bruciante ferita inferta dalle frecce acuminate.
Il selciato tutto intorno l'edificio sopra descritto - che tanto vale chiamare subito con il suo nome di Dogana del porto - ha nelle crepe abbastanza erba da dimostrare come, negli ultimi tempi, non sia stata calpestata dall'andirivieni di moltitudini indaffarate. In alcuni mesi dell'anno, tuttavia, capita spesso che, qualche mattina, gli affari si muovano a un ritmo più vivace. Sono occasioni che forse rammentano ai cittadini anziani il periodo - prima dell'ultima guerra contro l'Inghilterra - in cui Salem era un porto di tutto rispetto, non già, com'è ora, disdegnato dai suoi stessi mercanti e armatori che ne lasciano andare in rovina i moli, mentre i loro commerci vanno a gonfiare - in modo superfluo e senza gran costrutto - il possente flusso mercantile di New York o di Boston. In una mattina così, quando capita che attracchino simultaneamente tre o quattro navi - di solito giunte dall'Africa o dal Sudamerica, oppure pronte a salpare verso quelle destinazioni - arriva lo scalpiccio di passi frequenti, che frettolosi salgono e scendono i gradini di granito. Ecco che può capitarvi di salutare, prima ancora che lo accolga la moglie, il capitano rubizzo per l'aria di mare, appena approdato, con sotto il braccio, in una scatola di latta brunita, i documenti di bordo. Ecco anche l'armatore, allegro o cupo, affabile o scostante, a seconda che sia andato a buon fine, in termini di merci da trasformare prontamente in oro, il programma del viaggio appena concluso, o che invece si trovi sommerso da una mole di guai che nessuno si curerà di togliergli di dosso. Ecco - l'embrione del futuro mercante aggrondato, dalla barba grigia, con il volto segnato dagli affanni - il giovane impiegato di belle speranze, che assaggia il sapore del commercio così come il lupacchiotto assapora il gusto del sangue, e già specula sulle navi del padrone, mentre farebbe meglio a far scivolare barchette giocattolo sulle onde della gora del mulino. Un altro personaggio di questa scena è il marinaio pronto a imbarcarsi, in cerca di un salvacondotto, oppure quello appena sbarcato, pallido e debole, in cerca del permesso per farsi ricoverare in ospedale. E non dobbiamo dimenticare i capitani delle piccole golette rugginose che dalle province britanniche portano legna da ardere: un gruppo di lupi di mare dall'aria rozza, senza la prontezza del tipo yankee, che contribuiscono con esemplari di non poca importanza al nostro commercio in crisi.
Raggruppate tutti questi individui, come a volte succedeva, insieme ad altri tipi disparati tanto per variegare il mucchio, ed ecco che, per un po', la Dogana diventava un palcoscenico suggestivo. Più di frequente, tuttavia, nel salire i gradini, capitava di scorgere - nell'ingresso, se d'estate, oppure nei locali appositi, se d'inverno o con il brutto tempo - una fila di venerabili figure, assise su vecchie sedie antiquate, appoggiate alla parete, in bilico sulle gambe posteriori. Spesso erano assopiti, ma di tanto in tanto si sentivano bofonchiare fra loro, con farfugli a metà fra il parlato e il russato, con quella spossatezza che contraddistingue quanti vivono negli ospizi e quanti sopravvivono grazie alla beneficenza, al lavoro monopolizzato, o a chissà che altro, ma comunque non grazie alla loro intraprendenza e iniziativa. Questi vecchi signori - seduti, come Matteo, a riscuotere balzelli, ma con poche probabilità di essere chiamati, come avvenne per lui, a una missione apostolica - erano i funzionari della Dogana.
Sulla sinistra, inoltre, entrando dalla porta principale, si apre una certa stanza o ufficio, di circa quindici piedi quadrati, e il soffitto a nobile altezza, con due finestre ad arco che si affacciano sussiegose sul molo sgangherato prima citato, e una terza che dà su un vicoletto e un pezzo di Derby Street. Tutte e tre offrono scorci sulle drogherie, sugli artigiani che fanno i bozzelli, sui venditori di brodaglia, sui fornitori navali, dietro le porte delle quali botteghe si vedono di solito, intenti a ridere e a spettegolare, capannelli di vecchi lupi di mare e altri figuri che infestano i moli dei porti. La stanza, ragnatelosa e squallida con il suo vecchio intonaco, ha il pavimento cosparso di sabbia grigia secondo un'abitudine che altrove è da tempo caduta in disuso, ed è facile concludere, dalla generale sciatteria del luogo, che in questo santuario ha ben di rado accesso la donna, con i suoi strumenti magici - la scopa e la ramazza.
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