Mi venne naturale un gesto ammonitore quando vidi le loro manine rosee tendersi verso la Macchina del Tempo; e fortunatamente pensai subito al pericolo che non avevo fin allora considerato: mi avvicinai alla macchina, svitai le leve della messa in moto e me le misi in tasca; poi mi volsi ancora verso di loro, pensando in che modo avrei potuto comunicare con essi.

«Analizzando più da vicino i loro lineamenti, notai alcune caratteristiche di leggiadria proprie alle porcellane di Sassonia: avevano i capelli ricciuti che arrivavano fino al collo e incorniciavano il viso lasciando scoperte le orecchie finemente modellate e il volto levigato e nitido; avevano la bocca piccola, le labbra di un rosso vivo, sottili, e il mento minuto e ovale; i loro grandi occhi miti - e questo può sembrare presunzione da parte mia - rispecchiavano ben poco di quell'interesse che mi sarei potuto aspettare di aver suscitato in loro.

«Poiché non facevano il minimo sforzo per comunicare con me ma si limitavano a circondarmi sorridendo e parlando tra loro in quel linguaggio che assomigliava a un tubare di tortore, fui io ad avviare la conversazione: indicai la Macchina del Tempo, poi indicai me stesso, quindi, esitando un attimo per esprimere il trascorrere del tempo, indicai il sole.

Subito un'elegante figurina vestita in rosso e bianco ripeté il mio gesto, ed io rimasi stupefatto quando la udii imitare il rumore del tuono.

«Barcollai quasi per lo stupore, sebbene il significato del suo gesto fosse abbastanza chiaro, e una domanda mi venne improvvisa alla mente; queste creature erano dunque deficienti? Non potrete mai immaginare quanto rimasi colpito da un simile pensiero; avevo sempre ritenuto, vedete, che l'umanità, nell'anno 802.000, ci avrebbe talmente superato in ogni cognizione, nelle arti, in tutto! E ora un suo rappresentante mi rivolgeva una domanda degna del livello intellettuale di un bambino di cinque anni: mi chiedeva se ero venuto dal sole durante un temporale!

Tale domanda confermava il giudizio che avevo abbozzato nella mia mente vedendo i loro abiti, le loro membra fragili, i loro lineamenti minuti; e provai una forte delusione, pensando di aver costruito invano la Macchina del Tempo.

«Annuii, indicando il sole, e imitai così bene il boato del tuono da farli trasalire; indietreggiarono perplessi, quindi uno di loro mi si riavvicinò ridendo: aveva in mano una ghirlanda di bellissimi fiori sconosciuti e me la mise al collo. Il gesto fu accolto dagli allegri applausi degli altri, che si sparsero tutt'attorno per cercare ancora fiori, e me li gettarono addosso sempre ridendo, fino a quando fui quasi soffocato da una coltre fragrante: non potete immaginare, poiché non li avete visti, che delicati e meravigliosi fiori avesse prodotto la terra dopo innumerevoli anni di coltivazione.

«Qualcuno dovette suggerire di condurmi a visitare l'interno di una delle loro case, e così, guidato dai miei ospiti, passai accanto alla sfinge di marmo bianco che sembrava avermi fissato per tutto quel tempo sorridendo del mio stupore, e mi avviai verso un grande fabbricato grigio di pietra un po' corrosa.

Mentre camminavo fra loro, pensavo divertito alle mie previsioni di una posterità superiore per intelletto e profondamente austera.

«La generale impressione che riportai della natura che scorgevo al di sopra delle loro teste era quella di una quasi selvaggia distesa di cespugli e di fiori, un giardino da lungo tempo trascurato, eppure del tutto privo di erbacce. Vidi una gran quantità di alte spighe fiorite di bianco, i cui petali lisci e lucidi come la cera erano larghi circa trenta centimetri: erano cresciute alla rinfusa come i fiori di campo, tra una massa di arbusti variopinti; ma, come vi ho detto, in quel momento non le osservai con troppa attenzione.

La Macchina del Tempo rimase abbandonata sul prato, fra i rododendri.

«L'arco del portone era ornato di intagli che naturalmente non potei esaminare da vicino, ma che mi richiamarono alla memoria le decorazioni in cui erano maestri gli antichi Fenici; mi colpì tuttavia il fatto che fossero assai rovinate, forse dal tempo, o forse dalle intemperie. Una folla di individui vestiti ancor più vivacemente degli altri mi venne incontro, e oltrepassammo insieme la soglia. Coi miei abiti scuri puro stile ottocento e la ghirlanda di fiori al collo, io dovevo avere un aspetto abbastanza grottesco, così circondato da quella massa tumultuosa di esseri dalle membra di un bianco abbagliante vestiti di abiti dai colori tenui, tra un melodioso turbine di risate e di voci gioiose.

«il portone imponente si apriva su un atrio di dimensioni adeguate, dalle pareti dipinte di scuro; il soffitto restava in ombra, e le finestre, sia quelle munite di vetri colorati sia quelle senza vetri, lasciavano entrare una luce smorzata. Il pavimento era formato da grandi blocchi di un metallo bianco molto duro - non lastre o lamine: proprio blocchi - molto consumato, pensai, dai passi di innumerevoli generazioni, che avevano logorato i tratti più battuti scavandoli profondamente. L'atrio era occupato in tutta la lunghezza da una fila di tavole costruite con lastre di pietra levigata, alte una trentina di centimetri dal pavimento. Sulle tavole spiccavano grandi mucchi di frutta, simili alcune a fragole e arance gigantesche, ma per la maggior parte sconosciute; fra le tavole erano sparsi moltissimi cuscini, su cui i miei ospiti sedettero facendomi cenno di imitarli. Si misero a mangiare la frutta prendendola senza cerimonie con le mani e buttando le bucce e i piccioli dentro incavi rotondi ricavati ai lati delle tavole. Non mi feci pregare per seguire il loro esempio, perché avevo fame ed ero assetato; mentre mangiavamo esaminai l'atrio a mio agio.

«Forse quello che mi colpiva maggiormente era appunto il suo aspetto trascurato: i vetri macchiati delle finestre, disposti secondo un criterio puramente geometrico, erano spezzati in molti punti, e le tende che li coprivano erano piene di polvere; notai subito che la tavola accanto alla mia aveva un angolo sbrecciato. Nondimeno, l'aspetto generale del salone era assai ricco e pittoresco: circa duecento persone sedevano a pranzo, e moltissime avevano preso posto il più possibile accanto a me e mi squadravano con grande interesse, attraverso gli occhietti scintillanti, al di sopra della frutta che stavano mangiando. Tutti portavano gli stessi abiti ricavati da un tessuto morbido come la seta, e tuttavia, mi parve, assai resistente.

«A proposito: debbo dirvi che la loro dieta si componeva esclusivamente di frutta; quegli esseri del futuro erano vegetariani, e per tutto il tempo che rimasi con loro, pur desiderando ardentemente un pezzo di carne, dovetti adattarmi a mangiare come loro.

Compresi più tardi che la razza dei cavalli, dei buoi, delle pecore, dei cani si era estinta come, nel nostro tempo, quella degli ittiosauri. Però la frutta era una delizia; e una specie in particolare, che forse era di stagione in quel periodo di tempo: un frutto ricoperto da una scorza farinosa, di un sapore così squisito, che ne feci il mio cibo prediletto. Dapprima quegli strani frutti e quegli strani fiori mi avevano lasciato perplesso, ma più tardi cominciai a rendermi conto della loro importanza.

«Vi stavo dunque parlando del mio pranzo a base di frutta consumato in quel lontano futuro. Appena il mio appetito si fu un poco calmato, decisi di imparare a ogni costo il linguaggio di quegli esseri bizzarri: era la cosa più urgente. Pensai che appunto quei frutti avrebbero potuto offrirmi uno spunto adatto; ne presi uno in mano, e cominciai a emettere una serie di suoni interrogativi accompagnati da gesti adeguati. Mi era assai difficile spiegare quello che avevo in mente; da principio i miei sforzi suscitarono gran sorpresa e un mare di risate, ma dopo poco una piccola creatura dai capelli biondi parve afferrare la mia intenzione, e ripeté più volte un nome; poi cominciarono tutti a chiacchierare fitto fitto, spiegandosi la faccenda gli uni con gli altri: il mio primo tentativo di imitare i leggeri suoni squisiti del loro linguaggio li divertì immensamente. Mi sentivo come un maestro fra i suoi scolari, tuttavia persistetti nell'impresa, e dopo un po' di tempo potei disporre di qualche sostantivo; allora cominciai coi pronomi dimostrativi arrivando infine al verbo "mangiare". Fu un lavoro lentissimo di cui quei minuscoli esseri si stancarono assai presto, mostrando chiaramente di averne abbastanza delle mie interrogazioni, per cui decisi di applicare il sistema a piccole dosi e nei momenti in cui essi mi sembravano più disposti ad ascoltarmi. Ma sopportavano male anche le piccole dosi; non avevo mai visto individui più indolenti o che si stancassero con maggiore facilità.

5
Tramonto

«Feci subito un'altra scoperta piuttosto strana sul conto dei miei piccoli ospiti: mancavano di interesse per qualsiasi cosa. Si avvicinavano a me lanciando grida di impaziente meraviglia come avrebbero fatto dei bambini, ma appunto come i bambini smettevano ben presto di esaminarmi e si allontanavano alla ricerca di un nuovo giocattolo. Finito il pranzo e con esso i miei tentativi di conversazione, notai immediatamente che quasi tutti quelli che mi avevano circondato da principio erano spariti; vi sembrerà strano, ma cominciai subito a trascurare quella piccola gente.

Perciò, non appena ebbi soddisfatto il mio appetito, uscii dal portone, e mi trovai in un mondo pieno di sole. Incontrai una quantità di questi uomini del futuro che mi seguivano a breve distanza chiacchierando e ridendo di me; ma dopo avermi rivolto sorrisi e gesti amichevoli, mi lasciarono ben presto ai miei pensieri.

«Quando uscii dal portone, stava scendendo tutto intorno la pace della sera illuminata dal caldo splendore del sole al tramonto. In un primo momento tutto mi sembrò confuso; le cose apparivano completamente diverse da quelle che mi erano familiari nel mondo, perfino i fiori. Il grande fabbricato da cui uscivo era costruito sul declivio di una vallata percorsa da un fiume assai imponente, il Tamigi, spostato di circa un chilometro e mezzo dall'attuale posizione. Decisi di salire su un'altura distante poco più di due chilometri, da cui avrei potuto godere una vista più ampia del nostro pianeta quale appariva nell'anno 802.701.

Era infatti questa la data che registrava il quadrante della mia macchina.

«Mentre camminavo, stavo bene attento a non lasciarmi sfuggire la minima impressione che avrebbe eventualmente potuto aiutarmi a spiegare quelle condizioni di decaduto splendore in cui vedevo il mondo, che era davvero in rovina. Verso la sommità del colle, infatti, trovai un ammasso di grandi pezzi di granito tenuti insieme da blocchi di alluminio: un vasto labirinto di mura scoscese e di massi sgretolati in mezzo ai quali si era sviluppata una ricca vegetazione di piante enormi - ortiche, probabilmente - dalle foglie di un bellissimo color d'oro brunito, che non pungevano affatto. Erano evidentemente i resti abbandonati di qualche vasta costruzione, ma non fui in grado di stabilire a quale epoca essa avesse potuto appartenere; ed era destino che proprio qui, più tardi, facessi la stranissima esperienza che fu la prima rivelazione di una ancor più strana scoperta: ma di ciò parlerò al momento opportuno.

«Guardandomi attorno da quella terrazza su cui mi fermai a riposarmi per qualche tempo, mi resi conto che non si vedevano case di piccole dimensioni: sembrava che le case in cui abita una sola famiglia fossero scomparse. Qua e là fra il verde spiccavano fabbricati grandi come palazzi, ma non vi era alcuna traccia dei cottages che rendono così caratteristico il paesaggio inglese.

«"Comunismo", dissi fra me, e subito mi balzò alla mente un altro pensiero. Guardai la mezza dozzina di figurine che mi aveva seguito, e mi colpi immediatamente il fatto che tutti vestissero nella stessa maniera, che tutti avessero lo stesso volto liscio e levigato, la stessa rotondità infantile delle membra.