A un tratto e con movimento improvviso chiuse il libro e si alzò senza far rumore. Macchinalmente diede un’occhiata all’orologio, ma era un’occhiata inutile perché lui già sapeva che ora fosse. Tillizzini infatti, sia di giorno che di notte, aveva una misteriosa consapevolezza dell’ora. Fece alcuni passi, si avvicinò a una delle tre finestre e guardò fuori sulla banchina.

Nella oscurità della sera vide un crescendo di luci fredde che si allungavano verso Blackfairs e che era interrotto solo dalla scura massa del ponte di Waterloo. Nella immensa oscurità del firmamento sembrava che da tutti quei lumi venisse un invito a vivere e a godere; e più lontano, dietro un’altra torre, l’apparire e sparire di altri lumi sembrava che invitasse a bere l’unica cosa degna di questo mondo, un buon bicchiere di whisky.

Il professore guardava senza un sorriso. A un tratto un’intensa luce infiammò il cielo e subito si spense. Poi di nuovo si accese, luce accecante, bianca, palpitante, e di nuovo sparì.

All’apparire di quella prima luce, Tillizzini con rapidi movimenti aveva lasciato la finestra, e avvicinatosi a un armadio ne aveva tolto uno strano apparecchio a forma di lampada a cui era arrotolato un lungo filo; sempre con movimenti rapidi ma precisi infisse in una presa, che era nella parete, l’estremità di quel filo, poi spense le luci della camera e attese.

Di nuovo il fascio di luce si accese all’altra estremità del cielo. Il Edgar Wallace

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1913 - La Mano Rossa

professore girò l’interruttore del suo apparecchio e dal foro a forma di cono si sprigionò un lungo fascio di luce di un azzurro pallido.

Ripeté quest’operazione due volte finché dall’altra parte ebbe inizio un alternarsi di luci e di ombre con ritmo sempre più rapido, quasi furioso…

lunga, breve, lunga, breve… senza una pausa il messaggio correva.

Mentre il faro così comunicava, Tillizzini rispondeva brevemente.

Leggeva quel misterioso alfabeto con la stessa facilità con cui avrebbe letto i caratteri stampati in un libro, poiché conosceva l’inglese come la propria lingua ed era specialista in materia.

Non appena il faro all’altra estremità ebbe finito il suo messaggio, Tillizzini chiuse la finestra presso la quale era rimasto in piedi, rimise l’apparecchio nell’armadio e spinse il tavolo, di cui si era servito, contro la parete; poi abbassò le tende e riaccese la luce.

Ritornato alla scrivania, si mise a trascrivere il messaggio ricevuto. La sua scrittura era un groviglio di segni contorti che sembravano, e probabilmente erano, abbreviazioni, che lui solo avrebbe potuto capire.

Non aveva ancora finito che lo squillo di un campanello lo fece fermare; premette un bottone infisso nella gamba della scrivania e rapidamente fece scivolare in uno dei cassetti il suo notes, poi si voltò mentre la porta si apriva.

Un domestico vestito con cura annunciò: - L’ispettore Crock.

Il nuovo arrivato era un uomo piccolo, grosso e gioviale. La sua testa era calva e rotonda come una palla da biliardo e la barba era qua e là picchiettata di grigio; in tutto l’insieme era il vero tipo del borghese.

Eppure malgrado questa poco lusinghiera apparenza, o fors’anche per via di questa, Tillizzini non era mai stato deluso là dove aveva impiegato quel furbo poliziotto.

- Si accomodi, ispettore - disse indicando con la mano una sedia. - Una sigaretta?

L’ispettore sorrise.

- Troppo dolci per me - disse - io fumo la pipa.

- La riempia dunque - disse il professore con un leggero sorriso.

E non gli fece l’insulto di offrirgli il suo tabacco perché sapeva che ogni fumatore di pipa che si rispetta ha la propria miscela di tabacco che non solo non ama cambiare ma che difende accanitamente.

- Ebbene? - domandò il professore mentre l’altro riempiva metodicamente la sua pipa.

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- I suoi compatrioti… se lo permette… non sono… vorrei dire… insomma non ci aiutano… sono un po’…

- Sono bugiardi - finì il professore con la massima calma.