Da un terrazzo prospiciente, sul quale era installato un potente cannocchiale, egli poteva veder giù «il mondo», cioè Praga, e dietro di essa, all’orizzonte, poteva distinguere anche i boschi e la verde armonia di un paesaggio collinoso. Un’altra finestra aveva invece per vista il corso superiore della Moldava: unica rilucente fascia argentea, che si perdeva fra le caligini delle lontananze.
Per sedare un poco i suoi pensieri, che gli avevano davvero preso la mano, il medico di corte si avvicinò al cannocchiale e lo puntò sulla città, lasciando guidare la mano, come era suo solito, dal caso.
L’istrumento aveva un forte ingrandimento epperò un ristretto campo visivo. Gli oggetti si presentavano quindi all’osservatore come se gli stessero addirittura davanti.
Il medico di corte accostò la lente all’occhio, con l’inconscio desiderio di scorgere uno spazzacamino su di un tetto o qualunque altro caso che gli significasse un buon presagio. Ma subito indietreggiò, gettando un grido di spavento.
Gli era apparso, in grandezza naturale, il viso di Lisa la boema, con le palpebre senza ciglia che sbattevano, e i tratti contratti in una specie di sogghigno, quasi che essa l’avesse visto e riconosciuto!
L’impressione che il medico di corte ne risentì fu tale, che egli tremò tutto.
Abbandonò il cannocchiale e per un certo tempo, sgomentato, restò a fissare il cielo rifulgente di sole, aspettando di vedersi comparire, da un momento all’altro, la vecchia ganza in persona, perfino cavalcando una scopa come uno spettro.
Alla fine, si riprese. Il giuoco del caso era stato certo straordinario, ma, alla fin fine, tutto era suscettibile ad essere spiegato in via affatto naturale. Lieto di ciò, il medico di corte guardò nuovamente attraverso lo strumento. La vecchia era sì sparita; solo facce di persone estranee, che nulla gli dicevano, sfilavano ora dinanzi all’obbiettivo; gli sembrò, pertanto, che esse tutte recassero nei loro tratti i segni di una agitazione strana, di una tensione, che alla fine gli si trasmise.
Dalle spinte che si davano, dai vivaci movimenti delle mani, dalle labbra moventisi rapidamente, dalle bocche che restavano spalancate in atto di emettere delle grida, egli capì che si era formato, laggiù, un assembramento di popolo, per una qualche causa, che la grande distanza non gli permetteva di individuare.
Spostò un poco il cannocchiale. La visione sparì immediatamente e al suo posto comparve qualcosa di scuro e di quadrangolare che con la messa a fuoco della lente si definì gradatamente come una finestra aperta di soffitta, ai vetri rotti della quale erano stati incollati pezzi di giornale.
Una giovane donna ravvolta in stracci, col viso consunto e stirato come quello di un cadavere, con gli occhi profondamente infossati, sedeva nell’ambiente visibile attraverso il vano di quella finestra. In una ottusa, quasi animale indifferenza, essa teneva fisso lo sguardo su di un piccino di magrezza scheletrica che le giaceva davanti e che certamente era morto fra le sue braccia. La cruda luce del sole, avvolgendoli entrambi, permetteva di scorgere ogni dettaglio in una orrenda chiarezza e il suo giubilante splendore primaverile esasperava insopportabilmente quel tragico contrasto fra la gioia delle cose e la desolazione degli uomini.
«La guerra! Già, la guerra!» fece, con un sospiro, il Pinguino, e spostò il cannocchiale, per non farsi guastare inutilmente l’appetito per la colazione da quella orrenda visione.
«Questo deve essere l’ingresso posteriore di un teatro, o qualcosa di simile», mormorò soprappensiero all’apparire di una nuova scena nell’obbiettivo: due operai, circondati da monelli e da vecchie coi fazzoletti annodati intorno alla testa, portavano fuor da un portone un quadro enorme, nel quale era visibile un vegliardo dalla lunga barba bianca adagiato su nubi rosee, con un’espressione di indicibile dolcezza negli occhi e con la destra in atto di benedire, mentre la sinistra stringeva previdentemente un globo.
Piuttosto insoddisfatto e con l’animo combattuto da opposti sentimenti, il medico di corte rientrò nella sua stanza. La cuoca gli annunciò: «Venceslao sta giù ad aspettare», al che egli, senza far parola, prese il cilindro, i guanti e il bastone dal pomo di avorio e con uno scricchiolìo di scarpe scese per una fresca scala di marmo nel cortile del castello, dove il cocchiere si era già dato a rimuovere la parte superiore della carrozza, a che l’alta figura del suo padrone potesse prender posto senza urtare.
La carrozza aveva già percorso rumorosamente una buona parte delle ripide strade, quando al Pinguino venne improvvisamente una idea. Si mise allora a battere sui tintinnanti vetri dei finestrini, fino a che Carletto, puntando le gambe anteriori color isabella, si degnò di arrestare la vettura. Venceslao saltò da cassetta e si presentò col cappello alla mano allo sportello.
Come sbucata da terra, una frotta di scolari circondò subito la carrozza; nello scorgere il Pinguino e nel ricordarsi del suo soprannome, essi iniziarono una silenziosa danza da uccelli polari, imitando con le braccia piegate goffi movimenti di ali e facendo le mosse di darsi delle beccate.
Il medico di corte, non degnando la burla nemmeno di uno sguardo, disse sottovoce al cocchiere qualcosa, che lì per lì lasciò d’altro di stucco.
«Che cosa?! Nella Totenstrasse? L’Eccellenza… E’ nella Totenstrasse che vuole recarsi l’Eccellenza?» riuscì finalmente a balbettare, «da quelle… da quelle là - e già a quest’ora, di mattina?».
«Ma Lisa la boema non abita più nella Totenstrasse», riprese il cocchiere alquanto tranquillizzato, dopo che il Pinguino gli ebbe meglio spiegato le sue intenzioni, «Lisa la boema abita ora nel ‘Nuovo Mondo’, grazie al cielo».
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