Diverso è il destino di Ottokar e di Polissena, due esseri che influenze fatali e ancestrali hanno fatto incontrare. In essi la notte di Valpurga si scatena con una veemenza dionisiaca, in vicende di amore, di morte e di terrore, su di uno sfondo quasi demoniaco che aumenta sempre più di proporzioni. Il vero protagonista della vicenda non è Ottokar e nemmeno Polissena. E’ una forza del ceppo della famiglia di Polissena che, già manifestatasi in una sua antenata impazzita, soppianta la personalità della stessa Polissena e riemerge, torna a vivere, avida di amore e di sangue. Essa è il centro di una specie di fascinazione, di vortice, che finisce con l’agire collettivamente, galvanizzando una moltitudine in rivolta, facendo di essa il corpo in cui rivive anche Zizka, la tragica figura del capo degli Ussiti. Ma quando Ottokar cade, ucciso dalla sua stessa madre, quando le prime scariche delle truppe richiamate dal fronte disperdono la massa degli allucinati che nel segno di Zizka avevano messo a ferro e fuoco il Castello di Praga, il “Hradscin”, e avevano fatto incoronare Ottokar «re del mondo», la notte di Valpurga si dissolve e non lascia dietro di sé che ceneri. Come pallido epilogo, dopo lo scatenamento delle forze del sangue, della voluttà e della morte, dopo il breve miraggio di un illusorio splendore, Polissena, rimasta sola, ombra quasi di sé stessa, bussa alla porta di un convento.

Meyrink suole inserire in tutti i suoi romanzi, nella forma di brevi esposizioni dirette, insegnamenti esoterici, che spiccano quasi come chiare gemme incastonate. Così anche nella “Notte di Valpurga”. Ad un dato momento in Zrcadlo, ricettacolo medianico di influenze erranti, s’incarna un Maestro del

«Regno del Mezzo» che espone per sua bocca la dottrina del vero Io. Si tratta, in essenza, della concezione indù dell‘“Atmâ”, al quale l’uomo comunemente è esteriore benché costituisca il suo vero centro; per cui la sua esistenza è, da un punto di vista superiore, quella di un’ombra. Quell’Io, a cui inerisce anche una forma insensuale, trasfigurata di gioia (“ânanda” è la designazione indù) non è legata né allo spazio né al tempo. Per chi sa porre nuovamente il proprio centro in esso, ogni angoscia esistenziale, ogni sofferenza e ogni colpa dileguano. Egli diviene signore del proprio destino, diviene un «Vivente» in senso eminente. Ogni altro rassomiglia ad un sole spento. Ed è possibile che demoni estranei giuochino in lui la parte di un «io» illusorio. Solamente chi intende la voce dell’altro, vero Io - dice l’entità che parla per bocca di Zrcadlo - conosce la liberazione, distrugge anche i vincoli che una specie di ipnosi gli ha creato lungo una serie indefinita di generazioni. Questa non è una idea personale di Meyrink, corrisponde ad insegnamenti esoterici concordanti di diverse tradizioni, in prima linea, come si è detto, di quella indù.

Nel romanzo il clima dell’ossessione, in particolare anche del riemergere nei personaggi di complessi di forze già manifestatesi in altri esseri del loro stesso ceppo, è quello predominante, che definisce la «Notte di Valpurga». Vi è però da rilevare anche una ardita estensione delle idee dianzi accennate, corrispondente alla teoria dell‘“aweysha”, fatta esporre, nel romanzo di Meyrink, da un domestico tartaro. Si tratta del potere, attribuito a sciamani e a fachiri-maghi, di abbandonare il proprio corpo per prender possesso di quello di un altro, onde manifestarsi ed agire in esso (nel “Woodoo” negro di Haiti si sono potuti effettivamente rilevare casi del genere). L’estensione consiste nel prescindere delle forme specifiche stregoniche, nel riferirsi ad altre più sottili forme nelle quali ad agire non sarebbe più un essere sensibile e l’azione di qualcosa come un aweysha si tradisce nel sorgere di forme di esaltazione, di passione prorompente, di entusiasmo. L’idea esposta è che dovunque gli uomini sono trasportati da qualcosa di irresistibile e di irrazionale che agisce a loro danno (anche quando ideali e ideologie sembrano esser gli elementi determinanti), agisce un aweysha in grande, di cui essi non si rendono conto, che percepiscono solo negli effetti, ossia in stati d’animo che credono spontanei mentre sono provocati. Rivolgimenti collettivi calamitosi, moti delle masse fanatizzate, perfino guerre - tutto ciò avrebbe un retroscena occulto, rimanderebbe ad un aweysha facente capo a forze dell’«altra sponda».

E’, questa, una teoria abbastanza sconcertante ma che potrebbe anche servire, se presa con un senso di misura e tenendo in freno ogni divagante immagine, per una ricerca intorno alla «terza dimensione» di tutto ciò che comunemente in quanto accade si coglie o si interpreta soltanto secondo le due dimensioni della superficie. Un campo fecondo per una indagine simile sarebbe quello costituito dai casi nei quali si verifica ciò che il filosofo Wilhelm Wundt ebbe a chiamare l’«eterogenesi degli effetti», ossia nei casi in cui i risultati di determinate azioni sono assai diversi dai fini che ci si era proposti nell’intraprenderle, tanto da far pensare ad influenze sovraordinate, e non solo a semplici contingenze.

A parte il loro indiscusso valore artistico, i libri di Meyrink sono importanti e senza uguali per spunti del genere, i quali fanno sì che persone intellettualmente differenziate dalla loro lettura possono ricavare qualcosa di più di quanto da un semplice romanzo.

J. EVOLA

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ZRCADLO L’ATTORE.

Un cane abbaiò.