Ella non uscì più di giorno dalle sue stanze: usciva di notte, vagando in carrozza per le campagne dormienti. Vestiva di nero, e sui capelli scuri aveva un cerchietto d’acciaio con cinque diamanti che brillavano più che stelle.

La chiamarono allora la regina delle tenebre: i contadini che vegliavano dall’alto dei vigneti, qualche pastore che andava assonnato dietro greggie pascolanti nella notte, qualche cacciatore notturno steso sull’erba fredda dei ciglioni, la videro più d’una volta scendere di carrozza, con quelle sue cinque stelle in fronte, e appoggiarsi al paracarri, sull’orlo della valle fragrante, o sopra il ponte, come intenta ai fuochi lontani della montagna, o alla voce queta dall’acqua corrente. Una volta, in una riunione di gente elegante e incosciente, un gruppo di giovanotti sciocchi presero a discutere intorno all’evidente pazzia della regina delle tenebre. E uno sostenne, e convinse gli amici, che Magda voleva imitare Marina di Malombra e che, come questa, avrebbe finito col commetter delitti. Non si parlò d’altro. Anche Magda, spesso, tornava nella truce idea di credersi pazza; o per lo meno sentiva che tutta l’anima sua era malata. Qualche volta provava il bisogno di ripigliare la vita antica, di tornare nella società; ma oltre il resto, la ratteneva il timore delle chiacchiere della folla, della curiosità sciocca con cui il suo ritorno verrebbe accolto.

E si sentiva triste, triste fino alla morte; e cercava riposo nel pensiero della morte; ma quando s’immaginava intensamente la fine della sua vita, la cessazione completa dei suoi pensieri, delle sue sensazioni, l’immobilità del suo corpo, la distruzione di tutto il suo io superbo, provava un terrore indicibile.

Una notte, finalmente, ella uscì, al solito, e si fermò davanti al parapetto che guardava la valle. Si sentiva più che mai triste, ma qualche cosa d’insolito, un velo tenue di tenerezza, una vaga nostalgia di ricordi lontani, tremava sulla sua tristezza.

Era sul finire dell’estate; una notte interlunare, brillantata di stelle purissime. Nell’aria errava una lievissima freschezza insolita, e le selvatiche fragranze della valle salivano soffuse di quella freschezza appena sensibile.

Nelle montagne lontane, che chiudevano lo sfondo della vastissima vallata, i fuochi dei dissodatori che incendiavano le macchie, ardevano così grandi, così sanguinanti che la luce arrivava fino a Magda come luce di luna. Ella rimase lunga ora così, protesa sul parapetto del ponte: al riflesso dei fuochi lontani, i cinque diamanti brillavano come goccie di rugiada. L’acqua passava scarsa sotto il ponte, con un susurro tenue, continuo, sottile, melanconico. Anche la voce dell’acqua, quella notte, aveva una vibrazione insolita, tenera, come di voce stanca, come di voce che parlasse in sogno. E le montagne lontane ardevano, illuminando la pura notte stellata. Lo spettacolo era sublime, e nella contemplazione intensa di quella notte arcana, Magda si obliò, sentì cadere la sua tristezza.

I fuochi di quei poveri lavoratori lontani parvero illuminare anche le tenebre che stringevano la superba fronte gemmata. Un pensiero occulto, forse prima d’allora nato nelle profondità misteriose della psiche, brillò e rivelossi improvvisamente nella mente tenebrosa.

La regina delle tenebre si sentì artista, sentì che racchiudeva nell’anima irrequieta una potenza formidabile; il nitido riflesso della natura e delle cose. E pensò:

2

- Domani comincierò a lavorare, e il mio lavoro sarà come l’opera di quei lavoratori che incendiano la montagna, illuminando la notte e fecondando la terra. Descriverò questa notte, poi scriverò la storia della mia anima, tornerò al mondo, alla vita, all’amore; e il mondo, la vita, l’amore, ed il mio io, vivranno nell’opera mia. E nulla più ci distruggerà.

IL BAMBINO SMARRITO

Un signore, Matteo Morys, aveva deciso suicidarsi in un boschetto vicino alla città.

Fatto testamento, nel quale instituiva erede di tutta la roba che trovavasi in casa la vecchia domestica, e del patrimonio un Ospedale, s’avviò una sera verso il luogo fatale ove doveva morire. Prese a camminare per le vie più solitarie, e ben presto fu fuori di città. Era una splendida sera d’autunno: la luna nel suo primo quarto brillava alta sul cielo purissimo, e davanti a Matteo, sopra la linea nera del boschetto che chiudeva l’orizzonte glauco luminoso, Venere brillantissima tramontava. L’aria era tiepida, e indistinti rumori lontani vibravano nel limpidissimo spazio: sembrava di primavera, e una letizia arcana, come nei bei crepuscoli dell’incipiente maggio, palpitava intorno.