Doro faceva discorsi strani, diverse volte gli dissi di non alzare la voce: aveva un piglio aggressivo e sardonico che da tempo non gli avevo piú veduto. Provai a chiedergli dei fatti suoi con l'intenzione di tornare su Clelia, ma lui subito si mise a ridere e disse: “Lasciami stare la bottega. Ce ne infischiamo, mi pare”. Allora camminammo un altro poco in silenzio, e io cominciai ad aver fame e gli chiesi se accettava qualcosa.
“Tanto vale se ci sediamo,” mi disse. “Tu hai da fare?”
“Dovevo partire per venire da voi.”
“Allora puoi tenermi compagnia.”
E si sedette per primo. Sotto l'abbronzatura girava a volte intorno gli occhi bianchi, irrequieti come quelli di un cane. Adesso che l'avevo di fronte me ne accorsi, come pure che pareva sardonico in gran parse soltanto per il contralto dei denti con la faccia. Ma lui non mi lasciò il tempo di parlarne e disse subito:
“Quanto tempo che non siamo insieme.”
Volli vedere fin dove arrivava. Ero seccato. Anzi accesi la pipa per fargli capire che avevo il tempo dalla mia. Doro tirò fuori le sue sigarette dorate, e ne accese una e mi soffiò in faccia la boccata. Tacqui, aspettando.
Ma fu soltanto col buio che si lasciò andare. A mezzodì mangiammo insieme in trattoria, affogando nel sudore; poi ritornammo a passeggiare, e lui entrò in diversi negozi per darmi a intendere che aveva da fare commissioni. Verso sera prendemmo la vecchia strada della collina che tante volte in passato avevamo percorso insieme, e finimmo in una saletta tra di casa d'appuntamenti e di trattoria che da studenti c'era parsa il non-plus-ultra del vizio. Facemmo la passeggiata sotto una fresca luna estiva che ci rimise un poco dall'afa del giorno.
“Sono in campagna quei tuoi parenti?” chiesi a Doro.
“Sì, ma a trovarli non vado lo stesso. Voglio star solo.”
Questo da Doro era un complimento. Decisi di far la pace con lui.
“Scusa,” gli dissi piano. “Al mare ci potrò venire?”
“Quando vuoi,” disse Doro. “Ma prima fammi compagnia. Voglio scappare ai miei paesi.”
Di questo discorremmo cenando. Ci serviva, squallida e maltruccata, una figlia del padrone, forse la stessa che in passato ci aveva tante volte attirato lassù, ma vidi che Doro non badò a lei né alle sorelle più giovani che comparivano di tanto in tanto a servire certe coppie negli angoli. Doro beveva, questo sì, con molto gusto e incitava me a bere e s'infervorava a parlare delle sue colline.
Ci pensava da un pezzo, mi disse; erano - quanto? - tre anni che non le rivedeva, voleva prendersi una vacanza. Io ascoltavo, e quel discorso accendeva me pure. Anni e anni prima che lui si sposasse, avevamo fatto, a piedi e col sacco, il giro di tutta la regione, noi soli, spensierati e pronti a tutto, tra le cascine, sotto le ville, lungo i torrenti, dormendo a volte nei fienili. E i discorsi che avevamo tenuto - a pensarci arrossivo, o mi struggevo quasi incredulo. Avevamo allora l'età che si ascolta parlare l'amico come se parlassimo noi, che si vive a due quella vita in comune che ancor oggi io, che sono scapolo, credo riescano a vivere certe coppie di sposi.
“Ma perché non fai la gita con Clelia?” dissi senza malizia.
“Clelia non può, non ne ha voglia,” balbettò Doro, staccando il bicchiere. “Voglio farla con te.” Questa frase la disse con forza, corrugando la fronte e ridendo, come faceva nelle discussioni infervorate.
“Insomma, siamo tornati ragazzi,” brontolai, ma forse Doro non sentì.
Una cosa non potei mettere in chiaro quella sera: se Clelia era al corrente della scappata. Da qualcosa nel contegno di Doro avevo la sensazione che no. Ma come tornare su un discorso che l'amico lasciava cadere con tanta caparbietà? Quella notte lo feci dormire sul mio sofà - ebbe un sonno piuttosto agitato - e io pensavo come mai, per comunicarmi una cosa tanto innocente come il progetto di una gita, aveva atteso fino a sera. M'irritava pensare che forse ero soltanto il paravento di un litigio con Clelia.
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