Ho già detto che di Doro fui sempre geloso.
Stavolta prendemmo il treno - di buon mattino - e arrivammo che non faceva ancora caldo. In fondo a una campagna dove gli alberi apparivano piccini tant'era immensa, sorgevano le colline di Doro: colline scure, boscose, che allungavano le loro ombre mattutine sui poggi gialli, sparsi di cascinali. Doro - m'ero proposto di tenerlo d'occhio - prendeva ora con molta calma la gita. Ero riuscito a fargli dire che sarebbe durata al massimo tre giorni. Lo avevo anche dissuaso dal portarsi la valigia.
Scendemmo guardandoci intorno, e mentre Doro che conosceva tutti entrava nell'Albergo della Stazione, io mi fermavo sulla piazza solitaria - tanto solitaria che guardai l'orologio sperando fosse già mezzodì. Non erano ancora le nove, e allora studiai con attenzione l'acciottolato fresco e le case basse, dalle persiane verdi, dai balconi fioriti di glicini e gerani. La villa che in passato era stata di Doro si trovava fuori del paese sullo sperone di una valle aperta alla pianura. Ci avevamo passato una notte durante la gita famosa, in un'antica stanza dalle sovrapporte a fiori, lasciando al mattino i letti sfatti e senza darci altro disturbo che richiudere il cancello. Il parco che la circondava, non avevo avuto il tempo di passeggiarlo. Doro era nato in quella casa - i suoi ci stavano tutto l'anno e c'erano morti - e sposandosi l'aveva venduta. Ero curioso di vedere la sua faccia davanti a quel cancello.
Ma quando uscimmo dall'albergo a passeggiare, Doro s'incamminò da tutt'altra parte. Traversammo la ferrata e discendemmo il corso del fiume. Era chiaro che si andava in cerca di un posto d'ombra come in città si va al caffè. “Credevo andassimo alla villa,” borbottai. “Non siamo venuti apposta?”
Doro si fermò, squadrandomi. “Che ti credi? Che io faccia il ritorno alle origini? Quello che importa ce l'ho nel sangue e nessuno me lo toglie. Sono qui per bere un po' del mio vino e cantare una volta con chi so io. Mi prendo uno svago e basta.”
Volevo dirgli: "Non è vero", ma tant'è stetti zitto. Diedi un calcio a una pietra e tirai fuori la pipa. “Lo sai che canto male,” dissi a denti stretti. Doro alzò le spalle.
Mattino e pomeriggio ci passarono in tranquillo vagabondaggio, per le salite e le discese del poggio. Pareva che Doro facesse apposta a infilare sentierucoli che non portavano in nessun luogo ma morivano nell'afa su un greto, contro una siepe, sotto un cancello chiuso. Risalimmo anche un pezzo dello stradone che traversava la valle, verso sera quando il sole già basso sulla pianura la riempiva tutta di pulviscolo e le gaggie cominciavano a tremolare alla brezza. Mi sentivo rivivere, e anche Doro divenne più loquace. Parlò di un certo contadino che ai suoi tempi era famoso per cacciare di casa le sorelle - ne aveva parecchie - e poi fare il giro delle cascine dove queste cercavano rifugio, presentandosi fuori di sé ed esigendo un pranzo di riconciliazione. “Chi sa se è ancora vivo,” disse Doro. Stava in una cascina che di laggiù si vedeva. Era un ometto secco che parlava poco e tutti lo temevano, però aveva una cosa: non voleva sposarsi perché diceva che gli sarebbe rincresciuto dover scacciare anche la moglie. Qualcuna delle sorelle era poi scappata davvero, suscitando in paese la soddisfazione generale.
“Cos'era? un uomo rappresentativo?” dissi.
“No, un uomo nato per tutt'altro, uno spostato, uno di quelli che imparano a esser furbi perché fanno una vita che non li contenta.”
“Tutti dovrebbero esser furbi, allora.”
“Infatti.”
“Si è poi sposato?”
“Macché. Si tenne una sorella, la più robusta, che gli faceva dei figli e lavorava la vigna.
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