Lavorare stanca (Collezione di poesia) (Italian Edition)

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Cesare Pavese

LAVORARE STANCA

Introduzione di Vittorio Coletti
Nota al testo di Mariarosa Masoero



Giulio Einaudi editore

Lavorare stanca

 

1936

I mari del Sud

(a.Monti)


Camminiamo una sera sul fianco di un colle,

in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo

mio cugino è un gigante vestito di bianco,

che si muove pacato, abbronzato nel volto,

taciturno. Tacere è la nostra virtú.

Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo

– un grand’uomo tra idioti o un povero folle –

per insegnare ai suoi tanto silenzio.

Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto

se salivo con lui: dalla vetta si scorge

nelle notti serene il riflesso del faro

lontano, di Torino. «Tu che abiti a Torino...»

mi ha detto «... ma hai ragione. La vita va vissuta

lontano dal paese: si profitta e si gode

e poi, quando si torna, come me, a quarant’anni,

si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono».

Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,

ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre

di questo stesso colle, è scabro tanto

che vent’anni di idiomi e di oceani diversi

non gliel’hanno scalfito. E cammina per l’erta

con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,

usare ai contadini un poco stanchi.

Vent’anni è stato in giro per il mondo.

Se n’andò ch’io ero ancora un bambino portato da donne

e lo dissero morto. Sentii poi parlarne

da donne, come in favola, talvolta;

ma gli uomini, piú gravi, lo scordarono.

Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino

con un gran francobollo verdastro di navi in un porto

e auguri di buona vendemmia. Fu un grande stupore,

ma il bambino cresciuto spiegò avidamente

che il biglietto veniva da un’isola detta Tasmania

circondata da un mare piú azzurro, feroce di squali,

nel Pacifico, a sud dell’Australia. E aggiunse che certo

il cugino pescava le perle. E staccò il francobollo.

Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero

che, se non era morto, morirebbe.

Poi scordarono tutti e passò molto tempo.

Oh da quando ho giocato ai pirati malesi,

quanto tempo è trascorso. E dall’ultima volta

che son sceso a bagnarmi in un punto mortale

e ho inseguito un compagno di giochi su un albero

spaccandone i bei rami e ho rotta la testa

a un rivale e son stato picchiato,

quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi,

altri squassi del sangue dinanzi a rivali

piú elusivi: i pensieri ed i sogni.

La città mi ha insegnato infinite paure:

una folla, una strada mi han fatto tremare,

un pensiero talvolta, spiato su un viso.

Sento ancora negli occhi la luce beffarda

dei lampioni a migliaia sul gran scalpiccío.

Mio cugino è tornato, finita la guerra,

gigantesco, fra i pochi. E aveva denaro.

I parenti dicevano piano: «Fra un anno a dir molto,

se li è mangiati tutti e torna in giro.

I disperati muoiono cosí».

Mio cugino ha una faccia recisa. Comprò un pianterreno

nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento

con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina

e sul ponte ben grossa alla curva una targa-réclame.

Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi

e lui girò tutte le Langhe fumando.

S’era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza

esile e bionda come le straniere

che aveva certo un giorno incontrato nel mondo.

Ma uscí ancora da solo. Vestito di bianco,

con le mani alla schiena e il volto abbronzato,

al mattino batteva le fiere e con aria sorniona

contrattava i cavalli. Spiegò poi a me,

quando fallí il disegno, che il suo piano

era stato di togliere tutte le bestie alla valle

e obbligare la gente a comprargli i motori.

«Ma la bestia» diceva «piú grossa di tutte,

sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere

che qui buoi e persone son tutta una razza».

Camminiamo da piú di mezz’ora. La vetta è vicina,

sempre aumenta d’intorno il frusciare e il fischiare del vento.

Mio cugino si ferma d’un tratto e si volge: «Quest’anno

scrivo sul manifesto: – Santo Stefano

è sempre stato il primo nelle feste

della valle del Belbo – e che la dicano

quei di Canelli». Poi riprende l’erta.

Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio,

qualche lume in distanza: cascine, automobili

che si sentono appena: e io penso alla forza

che mi ha reso quest’uomo, strappandolo al mare,

alle terre lontane, al silenzio che dura.

Mio cugino non parla dei viaggi compiuti.

Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell’altro

e pensa ai suoi motori.


Solo un sogno

gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta

da fuochista su un legno olandese da pesca, il Cetaceo,

e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,

ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue

e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.

Me ne accenna talvolta.


Ma quando gli dico

ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora

sulle isole piú belle della terra,

al ricordo sorride e risponde che il sole

si levava che il giorno era vecchio per loro.

[7-19 settembre - novembre 1930]

Antenati



Stupefatto del mondo mi giunse un’età

che tiravo gran pugni nell’aria e piangevo da solo.

Ascoltare i discorsi di uomini e donne

non sapendo rispondere, è poca allegria.

Ma anche questa è passata: non sono piú solo

e, se non so rispondere, so farne a meno.

Ho trovato compagni trovando me stesso.

Ho scoperto che, prima di nascere, sono vissuto

sempre in uomini saldi, signori di sé,

e nessuno sapeva rispondere e tutti eran calmi.

Due cognati hanno aperto un negozio – la prima fortuna

della nostra famiglia – e l’estraneo era serio,

calcolante, spietato, meschino: una donna.

L’altro, il nostro, in negozio leggeva romanzi

– in paese era molto – e i clienti che entravano

si sentivan rispondere a brevi parole

che lo zucchero no, che il solfato neppure,

che era tutto esaurito. È accaduto piú tardi

che quest’ultimo ha dato una mano al cognato fallito.

A pensar questa gente mi sento piú forte

che a guardare lo specchio gonfiando le spalle

e atteggiando le labbra a un sorriso solenne.

È vissuto un mio nonno, remoto nei tempi,

che si fece truffare da un suo contadino

e allora zappò lui le vigne – d’estate –

per vedere un lavoro ben fatto. Cosí

sono sempre vissuto e ho sempre tenuto

una faccia sicura e pagato di mano.

E le donne non contano nella famiglia.

Voglio dire, le donne da noi stanno in casa

e ci mettono al mondo e non dicono nulla

e non contano nulla e non le ricordiamo.

Ogni donna c’infonde nel sangue qualcosa di nuovo,

ma s’annullano tutte nell’opera e noi,

rinnovati cosí, siamo i soli a durare.

Siamo pieni di vizi, di ticchi e di orrori

– noi, gli uomini, i padri – qualcuno si è ucciso,

ma una sola vergogna non ci ha mai toccato,

non saremo mai donne, mai schiavi a nessuno.

Ho trovato una terra trovando i compagni,

una terra cattiva, dov’è un privilegio

non far nulla, pensando al futuro.

Perché il solo lavoro non basta a me e ai miei,

noi sappiamo schiantarci, ma il sogno piú grande

dei miei padri fu sempre un far nulla da bravi.

Siamo nati per girovagare su quelle colline,

senza donne e le mani tenercele dietro alla schiena.

[primavera 1932]

Paesaggio [I]

(al Pollo)


Non è piú coltivata quassú la collina. Ci sono le felci

e la roccia scoperta e la sterilità.

Qui il lavoro non serve piú a niente. La vetta è bruciata

e la sola freschezza è il respiro. La grande fatica

è salire quassú: l’eremita ci venne una volta

e da allora è restato, a rifarsi le forze.

L’eremita si veste di pelle di capra

e ha un sentore muschioso di bestia e di pipa,

che ha impregnato la terra, i cespugli e la grotta.

Quando fuma la pipa in disparte nel sole,

se lo perdo non so rintracciarlo, perché è del colore

delle felci bruciate. Ci salgono visitatori

che si accasciano sopra una pietra, sudati e affannati,

e lo trovano steso, con gli occhi nel cielo,

che respira profondo. Un lavoro l’ha fatto:

sopra il volto annerito ha lasciato infoltirsi la barba,

pochi peli rossicci.