E depone gli sterchi

su uno spiazzo scoperto, a seccarsi nel sole.

Coste e valli di questa collina son verdi e profonde.

Tra le vigne i sentieri conducono su folli gruppi

di ragazze, vestite a colori violenti,

a far feste alla capra e gridare di là alla pianura.

Qualche volta compaiono file di ceste di frutta,

ma non salgono in cima: i villani le portano a casa

sulla schiena, contorti, e riaffondano in mezzo alle foglie.

Hanno troppo da fare e non vanno a veder l’eremita

i villani, ma scendono, salgono e zappano forte.

Quando han sete, tracannano vino: piantandosi in bocca

la bottiglia, sollevano gli occhi alla vetta bruciata.

La mattina sul fresco son già di ritorno spossati

dal lavoro dell’alba e, se passa un pezzente,

tutta l’acqua che i pozzi riversano in mezzo ai raccolti

è per lui che la beva. Sogghignano ai gruppi di donne

o domandano quando, vestite di pelle di capra,

siederanno su tante colline a annerirsi nel sole.

[1933]

Gente spaesata



Troppo mare. Ne abbiamo veduto abbastanza di mare.

Alla sera, che l’acqua si stende slavata

e sfumata nel nulla, l’amico la fissa

e io fisso l’amico e non parla nessuno.

Nottetempo finiamo a rinchiuderci in fondo a una tampa,

isolati nel fumo, e beviamo. L’amico ha i suoi sogni

(sono un poco monotoni i sogni allo scroscio del mare)

dove l’acqua non è che lo specchio, tra un’isola e l’altra,

di colline, screziate di fiori selvaggi e cascate.

Il suo vino è cosí. Si contempla, guardando il bicchiere,

a innalzare colline di verde sul piano del mare.

Le colline mi vanno, e lo lascio parlare del mare

perché è un’acqua ben chiara, che mostra persino le pietre.

Vedo solo colline e mi riempiono il cielo e la terra

con le linee sicure dei fianchi, lontane o vicine.

Solamente, le mie sono scabre, e striate di vigne

faticose sul suolo bruciato. L’amico le accetta

e le vuole vestire di fiori e di frutti selvaggi

per scoprirvi ridendo ragazze piú nude dei frutti.

Non occorre: ai miei sogni piú scabri non manca un sorriso.

Se domani sul presto saremo in cammino

verso quelle colline, potremo incontrar per le vigne

qualche scura ragazza, annerita di sole,

e, attaccando discorso, mangiarle un po’ d’uva.

[1933]

Pensieri di Deola



Deola passa il mattino seduta al caffè

e nessuno la guarda. A quest’ora in città corron tutti

sotto il sole ancor fresco dell’alba. Non cerca nessuno

neanche Deola, ma fuma pacata e respira il mattino.

Fin che è stata in pensione, ha dovuto dormire a quest’ora

per rifarsi le forze: la stuoia sul letto

la sporcavano con le scarpacce soldati e operai,

i clienti che fiaccan la schiena. Ma, sole, è diverso:

si può fare un lavoro piú fine, con poca fatica.

Il signore di ieri, svegliandola presto,

l’ha baciata e condotta (mi fermerei, cara,

a Torino con te, se potessi) con sé alla stazione

a augurargli buon viaggio.


È intontita, ma fresca, stavolta,

e le piace esser libera, Deola, e bere il suo latte

e mangiare brioches. Stamattina è una mezza signora

e, se guarda i passanti, fa solo per non annoiarsi.

A quest’ora in pensione si dorme e c’è puzza di chiuso

– la padrona va a spasso – è da stupide stare là dentro.

Per girare la sera i locali, ci vuole presenza

e in pensione, a trent’anni, quel po’ che ne resta, si è perso.

Deola siede mostrando il profilo a uno specchio

e si guarda nel fresco del vetro. Un po’ pallida in faccia:

non è il fumo che stagni. Corruga le ciglia.

Ci vorrebbe la voglia che aveva Marí, per durare

in pensione (perché, cara donna, gli uomini

vengon qui per cavarsi capricci che non glieli toglie

né la moglie né l’innamorata) e Marí lavorava

instancabile, piena di brio e godeva salute.

I passanti davanti al caffè non distraggono Deola

che lavora soltanto la sera, con lente conquiste

nella musica del suo locale. Gettando le occhiate

a un cliente o cercandogli il piede, le piaccion le orchestre

che la fanno parere un’attrice alla scena d’amore

con un giovane ricco. Le basta un cliente

ogni sera e ha da vivere. (Forse il signore di ieri

mi portava davvero con sé). Stare sola, se vuole,

al mattino, e sedersi al caffè. Non cercare nessuno.

[5-12 novembre - dicembre 1932]

Canzone di strada



Perché vergogna? Quando uno ha pagato il suo tempo,

se lo lasciano uscire, è perché è come tutti

e ce n’è della gente per strada, che è stata in prigione.

Dal mattino alla sera giriamo sui corsi

e che piova o che faccia un bel sole, va sempre per noi.

È una gioia incontrare sui corsi la gente che parla

e parlare da soli, pigliando ragazze a spintoni.

È una gioia fischiar nei portoni aspettando ragazze

e abbracciarle per strada e portarle al cinema

e fumar di nascosto, appoggiati alle belle ginocchia.

È una gioia parlare con loro palpando e ridendo,

e di notte nel letto, sentendo buttarsi sul collo

le due braccia che attirano in basso, pensare al mattino

che si tornerà a uscir di prigione nel fresco del sole.

Dal mattino alla sera girare ubriachi

e guardare ridendo i passanti che vanno

e che godono tutti – anche i brutti – a sentirsi per strada.

Dal mattino alla sera cantare ubriachi

e incontrare ubriachi e attaccare discorsi

che ci durino a lungo e ci mettano sete.

Tutti questi individui che vanno parlando tra sé,

li vogliamo alla notte con noi, chiusi in fondo alla tampa,

e seguire con loro la nostra chitarra

che saltella ubriaca e non sta piú nel chiuso

ma spalanca le porte a echeggiare nell’aria –

fuori piòvano l’acqua o le stelle. Non conta se i corsi

a quest’ora non hanno piú belle ragazze a passeggio:

troveremo ben noi l’ubriaco che ride da solo

perché è uscito anche lui di prigione stanotte,

e con lui, strepitando e cantando, faremo il mattino.

[1933]

Due sigarette



Ogni notte è la liberazione. Si guarda i riflessi

dell’asfalto sui corsi che si aprono lucidi al vento.

Ogni rado passante ha una faccia e una storia.

Ma a quest’ora non c’è piú stanchezza: i lampioni a migliaia

sono tutti per chi si sofferma a sfregare un cerino.

La fiammella si spegne sul volto alla donna

che mi ha chiesto un cerino. Si spegne nel vento

e la donna delusa ne chiede un secondo

che si spegne: la donna ora ride sommessa.

Qui possiamo parlare a voce alta e gridare,

ché nessuno ci sente. Leviamo gli sguardi

alle tante finestre – occhi spenti che dormono –

e attendiamo. La donna si stringe le spalle

e si lagna che ha perso la sciarpa a colori

che la notte faceva da stufa. Ma basta appoggiarci

contro l’angolo e il vento non è piú che un soffio.

Sull’asfalto consunto c’è già un mozzicone.

Questa sciarpa veniva da Rio, ma dice la donna

che è contenta di averla perduta, perché mi ha incontrato.

Se la sciarpa veniva da Rio, è passata di notte

sull’oceano inondato di luce dal gran transatlantico.

Certo, notti di vento. È il regalo di un suo marinaio.

Non c’è piú il marinaio. La donna bisbiglia

che, se salgo con lei, me ne mostra il ritratto

ricciolino e abbronzato. Viaggiava su sporchi vapori

e puliva le macchine: io sono piú bello.

Sull’asfalto c’è due mozziconi. Guardiamo nel cielo:

la finestra là in alto – mi addita la donna – è la nostra.

Ma lassú non c’è stufa. La notte, i vapori sperduti

hanno pochi fanali o soltanto le stelle.

Traversiamo l’asfalto a braccetto, giocando a scaldarci.

[1933]

Ozio



Tutti i gran manifesti attaccati sui muri,

che presentano sopra uno sfondo di fabbriche

l’operaio robusto che si erge nel cielo,

vanno in pezzi, nel sole e nell’acqua. Masino bestemmia

a veder la sua faccia piú fiera, sui muri

delle vie, e doverle girare cercando lavoro.

Uno si alza al mattino e si ferma a guardare i giornali

nelle edicole vive di facce di donna a colori:

fa confronti con quelle che passano e perde il suo tempo,

ché ogni donna ha le occhiaie piú stracche. Compaiono a un tratto

coi cartelli dei cinematografi addosso alla testa

e con passi sostanti, i vecchiotti vestiti di rosso

e Masino, fissando le facce deformi

e i colori, si tocca le guance e le sente piú vuote.

Ogni volta che mangia, Masino ritorna a girare,

perché è segno che ha già lavorato.