Traversa le vie

e non guarda piú in faccia nessuno. La sera, ritorna

e si stende un momento nei prati con quella ragazza.

Quando è solo, gli piace restare nei prati

tra le case isolate e i rumori sommessi

e talvolta fa un sonno. Le donne non mancano,

come quando era ancora meccanico: adesso è Masino

a cercarne una sola e volerla fedele.

Una volta – da quando va in giro – ha atterrato un rivale

e i colleghi, che li hanno trovati in un fosso,

han dovuto bendargli una mano. Anche quelli non fanno piú nulla

e tre o quattro, affamati, han formato una banda

di clarino e chitarre – volevano averci Masino

che cantasse – e girare le vie a raccogliere i soldi.

Lui Masino ha risposto che canta per niente

ogni volta che ha voglia, ma andare a svegliare le serve

per le strade, è un lavoro da napoli. I giorni che mangia,

porta ancora con sé pochi amici a metà la collina:

là si chiudono in qualche osteria e ne cantano un pezzo

loro soli, da uomini. Andavano un tempo anche in barca,

ma dal fiume si vede la fabbrica, e fa brutto sangue.

Dopo un giorno a strisciare le suole davanti agli affissi,

alla sera Masino finisce al cinema

dove ha già lavorato, una volta. Fa bene quel buio

alla vista spossata dai troppi lampioni.

Tener dietro alla storia non è una fatica:

vi si vede una bella ragazza e talvolta c’è uomini

che si picchiano secco. Vi sono paesi

che varrebbe la pena di viverci, al posto

degli stupidi attori. Masino contempla,

su un paese di nude colline, di prati e di fabbriche,

la sua testa ingrandita in primissimi piani.

Quelli almeno non dànno la rabbia che dànno i cartelli

colorati, sugli angoli, e i musi di donna dipinti.

[inverno 1932]

Proprietari



Il mio prete che è nato in campagna, è vissuto vegliando

giorno e notte in città i moribondi e ha riunito in tanti anni

qualche soldo di lasciti per l’ospedale.

Risparmiava soltanto le donne perdute e i bambini

e nel nuovo ospedale – lettucci di ferro imbiancato –

c’è un’intera sezione per donne e bambini perduti.

Ma i morenti che sono scampati, lo vengono ancora a trovare

e gli chiedon consigli di affari. Lo zelo l’ha reso ben magro

tra il sentore dei letti e i discorsi con gente che rantola

e seguire, ogni volta che ha tempo, i suoi morti alla fossa

e pregare per loro, spruzzandoli e benedicendoli.

Una sera di marzo già calda, il mio prete ha sepolto

una vecchia coperta di piaghe: era stata sua madre.

La donnetta era morta al paese, perché l’ospedale

le faceva paura e voleva morir nel suo letto.

Il mio prete quel giorno portava la stola

dei suoi altri defunti, ma sopra la bara

spruzzò a lungo acqua santa e pregò anche piú a lungo.

Nella sera già calda, la terra rimossa odorava

sulla bara dov’era un marciume: la vecchia era morta

per il sangue cattivo a vedersi sfumare le terre

che – rimasta lei sola – spettava a lei sola salvare.

Sotto terra, un rosario era avvolto alle mani piagate

che, da vive, con tre o quattro croci su pezzi di carta

s’eran messe in miseria. E il mio prete pregava

che potesse venir perdonata la temerità

della vedova che, mentre il figlio studiava coi preti,

s’era – senza cercare consiglio – presunta da tanto.

L’ospedale ha un giardino che odora di terra,

messo insieme a fatica, per dare ai malati aria buona.

Il mio prete conosce le piante e i cespugli

anche piú dei suoi morti, ché quelli rinnovano,

ma le piante e i cespugli son sempre gli stessi.

Tra quel verde borbotta – a quel modo che fa sulle tombe –

negli istanti che ruba ai malati, e dimentica sempre

di fermarsi davanti alla grotta, che han fatto le suore,

della Natività, in fondo al viale. Si lagna talvolta

che le cure gli han sempre impedito di dare un’occhiata

ai bisogni degli alberi secchi e che mai, da trent’anni,

ha potuto pensare alla requiem eterna.

[12-16 febbraio 1933]

Paesaggio [II]



La collina biancheggia alle stelle, di terra scoperta;

si vedrebbero i ladri, lassú. Tra le ripe del fondo

i filari son tutti nell’ombra. Lassú che ce n’è

e che è terra di chi non patisce, non sale nessuno:

qui nell’umidità, con la scusa di andare a tartufi,

entran dentro alla vigna e saccheggiano le uve.

Il mio vecchio ha trovato due graspi buttati

tra le piante e stanotte borbotta. La vigna è già scarsa:

giorno e notte nell’umidità, non ci viene che foglie.

Tra le piante si vedono al cielo le terre scoperte

che di giorno gli rubano il sole. Lassú brucia il sole

tutto il giorno e la terra è calcina: si vede anche al buio.

Là non vengono foglie, la forza va tutta nell’uva.

Il mio vecchio appoggiato a un bastone nell’erba bagnata,

ha la mano convulsa: se vengono i ladri stanotte,

salta in mezzo ai filari e gli fiacca la schiena.

Sono gente da farle un servizio da bestie,

ché non vanno a contarla. Ogni tanto alza il capo

annusando nell’aria: gli pare che arrivi nel buio

una punta d’odore terroso, tartufi scavati.

Sulle coste lassú, che si stendono al cielo,

non c’è l’uggia degli alberi: l’uva strascina per terra,

tanto pesa. Nessuno può starci nascosto:

si distinguono in cima le macchie degli alberi

neri e radi. Se avesse la vigna lassú,

il mio vecchio farebbe la guardia da casa, nel letto,

col fucile puntato. Qui, al fondo, nemmeno il fucile

non gli serve, perché dentro il buio non c’è che fogliami.

[1933]

Paesaggio [III]



Tra la barba e il gran sole la faccia va ancora,

ma è la pelle del corpo, che biancheggia tremante

fra le toppe. Non basta lo sporco a confonderla

nella pioggia e nel sole. Villani anneriti

l’han guardato una volta, ma l’occhiata perdura

su quel corpo, cammini o si accasci al riposo.

Nella notte le grandi campagne si fondono

in un’ombra pesante, che sprofonda i filari

e le piante: soltanto le mani conoscono i frutti.

L’uomo lacero pare un villano, nell’ombra,

ma rapisce ogni cosa e i cagnacci non sentono.

Nella notte la terra non ha piú padroni,

se non voci inumane. Il sudore non conta.

Ogni pianta ha un suo freddo sudore nell’ombra

e non c’è piú che un campo, per nessuno e per tutti.

Al mattino quest’uomo stracciato e tremante

sogna, steso ad un muro non suo, che i villani

lo rincorrono e vogliono morderlo, sotto un gran sole.

Ha una barba stillante, di fredda rugiada

e tra i buchi la pelle. Compare un villano

con la zappa sul collo, e s’asciuga la bocca.

Non si scosta nemmeno, ma scavalca quell’altro:

un suo campo quest’oggi ha bisogno di forza.

[1934]

Una stagione



Questa donna una volta era fatta di carne

fresca e solida: quando portava un bambino,

si teneva nascosta e intristiva da sola.

Non amava mostrarsi sformata per strada.

Le altre volte (era giovane e senza volerlo

fece molti bambini) passava per strada

con un passo sicuro e sapeva godersi gli istanti.

I vestiti diventano vento le sere di marzo

e si stringono e tremano intorno alle donne che passano.

Il suo corpo di donna muoveva sicuro nel vento

che svaniva lasciandolo saldo. Non ebbe altro bene

che quel corpo, che adesso è consunto dai troppi

figliuoli.

Nelle sere di vento si spande un sentore di linfe,

il sentore che aveva da giovane il corpo

tra le vesti superflue. Un sapore di terra bagnata,

che ogni marzo ritorna. Anche dove in città non c’è

viali

e non giunge col sole il respiro del vento,

il suo corpo viveva, esalando di succhi

in fermento, tra i muri di pietra. Col tempo, anche lei,

che ha nutrito altri corpi, si è rotta e piegata.

Non è bello guardarla, ha perduto ogni forza;

ma, dei molti, una figlia ritorna a passare

per le strade, la sera, e ostentare nel vento

sotto gli alberi, solido e fresco, il suo corpo che vive.

E c’è un figlio che gira e sa stare da solo

e si sa divertire da solo. Ma guarda nei vetri,

compiaciuto del modo che tiene a braccetto

la compagna. Gli piace, d’un gioco di muscoli,

accostarsela mentre rilutta e baciarla sul collo.

Sopratutto gli piace, poi che ha generato

su quel corpo, lasciarlo intristire e tornare a se stesso.

Un amplesso lo fa solamente sorridere e un figlio

lo farebbe indignare.