Il ricordo

nostro è un aspro sentore, la poca dolcezza

della terra sventrata che esala all’inverno

il respiro del fondo. Si è spento ogni odore

lungo il buio, e in città non ci giunge che il vento.

Torneremo stanotte alla donna che dorme,

con le dita gelate a cercare il suo corpo,

e un calore ci scuoterà il sangue, un calore di terra

annerita di umori: un respiro di vita.

Anche lei si è scaldata nel sole e ora scopre

nella sua nudità la sua vita piú dolce,

che nel giorno scompare, e ha sapore di terra.

[1933]

Disciplina antica



Gli ubriachi non sanno parlare alle donne

e si sono sbandati; nessuno li vuole.

Vanno adagio per strada, la strada e i lampioni

non han fine. Qualcuno fa i giri piú larghi:

ma non c’è da temere, domani ritornano a casa.

L’ubriaco che sbanda, si crede con donne

– i lampioni son sempre gli stessi e le donne, di notte,

sono sempre le stesse –: nessuna lo ascolta.

L’ubriaco ragiona e le donne non vogliono.

Queste donne che ridono sono il discorso che fa:

perché ridono tanto le donne o, se piangono, gridano?

L’ubriaco vorrebbe una donna ubriaca

che ascoltasse sommessa. Ma quelle lo assordano

«Per avere ’sto figlio, bisogna passare da noi».

L’ubriaco si stringe a un compagno ubriaco,

che stasera è suo figlio, non nato da quelle.

Come può una donnetta che piange e che sgrida

fargli un figlio compagno? Se quello è ubriaco,

non ricorda le donne nel passo malfermo,

e i due avanzano in pace. Il figliolo che conta

non è nato di donna – sarebbe una donna

anche lui –. Lui cammina col padre e ragiona:

i lampioni gli durano tutta la notte.

[1933]

Indisciplina



L’ubriaco si lascia alle spalle le case stupite.

Mica tutti alla luce del sole si azzardano

a passare ubriachi. Traversa tranquillo la strada,

e potrebbe infilarsi nei muri, ché i muri ci stanno.

Solo un cane trascorre a quel modo, ma un cane si ferma

ogni volta che sente la cagna e la fiuta con cura.

L’ubriaco non guarda nessuno, nemmeno le donne.

Per la strada la gente, stravolta a guardarlo, non ride

e non vuole che sia l’ubriaco, ma i molti che inciampano

per seguirlo con gli occhi, riguardano innanzi

bestemmiando. Passato che c’è l’ubriaco,

tutta quanta la strada si muove piú lenta

nella luce del sole. Qualcuno che corre

come prima, è qualcuno che non sarà mai l’ubriaco.

Gli altri fissano, senza distinguere, il cielo e le case

che continuano a esserci, se anche nessuno li vede.

L’ubriaco non vede né case né cielo,

ma li sa, perché a passo malfermo percorre uno spazio

netto come le strisce di cielo. La gente impacciata

non comprende piú a cosa ci stiano le case,

e le donne non guardano gli uomini. Tutti

hanno come paura che a un tratto la voce

rauca scoppi a cantare e li segua nell’aria.

Ogni casa ha una porta, ma è inutile entrarci.

L’ubriaco non canta, ma tiene una strada

dove l’unico ostacolo è l’aria. Fortuna

che di là non c’è il mare, perché l’ubriaco

camminando tranquillo entrerebbe anche in mare

e, scomparso, terrebbe sul fondo lo stesso cammino.

Fuori, sempre, la luce sarebbe la stessa.

[1933]

Paesaggio [IV]



Le colline insensibili che riempiono il cielo

sono vive nell’alba, poi restano immobili

come fossero secoli, e il sole le guarda.

Ricoprirle di verde sarebbe una gioia

e nel verde, disperse, le frutta e le case.

Ogni pianta nell’alba sarebbe una vita

prodigiosa e le nuvole avrebbero un senso.

Non ci manca che un mare a risplendere forte

e inondare la spiaggia in un ritmo monotono.

Su dal mare non sporgono piante, non muovono foglie;

quando piove sul mare, ogni goccia è perduta,

come il vento su queste colline, che cerca le foglie

e non trova che pietre. Nell’alba, è un istante:

si disegnano in terra le sagome nere

e le chiazze vermiglie. Poi torna il silenzio.

Hanno un senso le coste buttate nel cielo

come case di grande città? Sono nude.

Passa a volte un villano stagliato nel vuoto,

cosí assurdo che pare passeggi su un tetto

di città. Viene in mente la sterile mole

delle case ammucchiate, che prende la pioggia

e si asciuga nel sole e non dà un filo d’erba.

Per coprire le case e le pietre di verde

– sí che il cielo abbia un senso – bisogna affondare

dentro il buio radici ben nere. Al tornare dell’alba

scorrerebbe la luce fin dentro la terra

come un urto. Ogni sangue sarebbe piú vivo:

anche i corpi son fatti di vene nerastre.

E i villani che passano avrebbero un senso.

[1934]

Disciplina



I lavori cominciano all’alba. Ma noi cominciamo

un po’ prima dell’alba a incontrare noi stessi

nella gente che va per la strada. Ciascuno ricorda

di esser solo e aver sonno, scoprendo i passanti

radi – ognuno trasogna fra sé,

tanto sa che nell’alba spalancherà gli occhi.

Quando viene il mattino ci trova stupiti

a fissare il lavoro che adesso comincia.

Ma non siamo piú soli e nessuno piú ha sonno

e pensiamo con calma i pensieri del giorno

fino a dare in sorrisi. Nel sole che torna

siamo tutti convinti. Ma a volte un pensiero

meno chiaro – un sogghigno – ci coglie improvviso

e torniamo a guardare come prima del sole.

La città chiara assiste ai lavori e ai sogghigni.

Nulla può disturbare il mattino. Ogni cosa

può accadere e ci basta di alzare la testa

dal lavoro e guardare. Ragazzi scappati

che non fanno ancor nulla, camminano in strada

e qualcuno anche corre. Le foglie dei viali

gettan ombre per strada e non manca che l’erba,

tra le case che assistono immobili. Tanti

sulla riva del fiume si spogliano al sole.

La città ci permette di alzare la testa

a pensarci, e sa bene che poi la chiniamo.

[1934]

Legna verde



L’uomo fermo ha davanti colline nel buio.

Fin che queste colline saranno di terra,

i villani dovranno zapparle. Le fissa e non vede,

come chi serri gli occhi in prigione ben sveglio.

L’uomo fermo – che è stato in prigione – domani riprende

il lavoro coi pochi compagni. Stanotte è lui solo.

Le colline gli sanno di pioggia: è l’odore remoto

che talvolta giungeva in prigione nel vento.

Qualche volta pioveva in città: spalancarsi

del respiro e del sangue alla libera strada.

La prigione pigliava la pioggia, in prigione la vita

non finiva, ogni giorno filtrava anche il sole:

i compagni attendevano e il futuro attendeva.

Ora è solo. L’odore inaudito di terra

gli par sorto dal suo stesso corpo, e ricordi remoti

– lui conosce la terra – costringerlo al suolo,

a quel suolo reale. Non serve pensare

che la zappa i villani la picchiano in terra

come sopra un nemico e che si odiano a morte

come tanti nemici. Hanno pure una gioia

i villani: quel pezzo di terra divelto.

Cosa importano gli altri? Domani nel sole

le colline saranno distese, ciascuno la sua.

I compagni non vivono nelle colline,

sono nati in città dove invece dell’erba

c’è rotaie.