E benvenuto sia.

(Canticchiando)

“… presso le molli sponde
“dei placidi ruscelli…”

Iddio protegga il giusto. Com’è armato?

SIMPLICIO -

Non ha armi, signore. Non ne vedo.

Viene anche il mio padrone, mastro Zucca

e un altro gentiluomo,

da quella parte, dalla “Ranocchiara”,

al di là della siepe.

EVANS -

La mia tonaca,

dammi qua, per favore, la mia tonaca…


(Simplicio raccoglie da terra la tonaca)


O se no, tienila tu sulle braccia.


(Tira fuori di nuovo il libro e si mette a leggere)


Da una staccionata entrano PAGE e ZUCCA; poi

STANGHETTA

ZUCCA -

Oh, mastro parroco! Voi qui, don Ugo?

Buongiorno! Chi può dir non sia miracolo

tener lontan dai dadi un giocatore

e lontano dai libri un erudito?

STANGHETTA -

(A parte, sospirando)

… O mia dolce Anna Page!

PAGE -

Salve, don Ugo!

EVANS -

Dio v’abbia tutti in sua misericordia!

ZUCCA -

Come! La spada unita al Sacro Verbo?

Li coltivate insieme, signor Parroco?

EVANS -

Ci son cause e ragioni a ciò, signori.

PAGE -

Siam venuti a cercarvi tutti in gruppo

per un’opera buona, mastro Parroco.

EVANS -

Bene. Di che si tratta?

PAGE -

Laggiù c’è un rispettabile signore

che deve aver subìto da qualcuno

tale offesa da metterlo in conflitto

col buon contegno e con la sua pazienza

come non s’era mai veduto in lui.

ZUCCA -

Io sono al mondo da più di ottant’anni

e mai vidi persona del suo rango,

della sua istruzione e compostezza

perder così il rispetto di se stessa.

EVANS -

Chi è costui?

PAGE -

Lo conoscete, credo:

è mastro dottor Cajus,

il rinomato medico francese.

EVANS -

Dio mi pertoni la rappia del cuore,

ma mi fareste cosa più cradita

se mi parlaste di un piatto di porridge!

PAGE -

Perché, don Ugo?

EVANS -

Perché quello là

della scienza d’Ippocrate e Galeno

non ne sa più d’un piatto di brodaglia.

Eppoi è una canaglia, la più vile

che possiate augurarvi di conoscere.

PAGE -

(A Zucca)

Ci scommetto ch’è proprio quello l’uomo

col quale il prete si dovrebbe battere.

STANGHETTA -

(A parte)

Oh, mia dolce Anna Page!


Entrano dal fondo, scavalcando una staccionata, l’OSTE, CAJUS e RUGBY.

Cajus ha la spada sguainata.

ZUCCA -

(Indicando Cajus che arriva)

Sembra proprio di sì, da come è armato.

Teniamoli a distanza l’un dall’altro.


(Va verso il dottor Cajus e gli si para davanti per trattenerlo, mentre Page si para avanti a don Ugo)

ZUCCA -

Oh, ecco il dottor Cajus!

PAGE -

No, signor Parroco, la spada a posto!

ZUCCA -

(A Cajus)

E così voi, dottore…

OSTE -

Disarmateli!

E poi che se la sbrighino tra loro

a parole, fintanto che vorranno,

sì che restino illese le lor membra

e massacrato solo il nostro inglese.

CAJUS -

(Che intanto si è avvicinato a don Evans e gli parla in un orecchio)

Perché esitate a battervi con me?

EVANS -

(Sottovoce)

Pazientate. Ve lo dirò a suo luogo.

CAJUS -

(c.s.)

Siete un vile, parbleu!, ed un furfante

un volgare cagnaccio, una bertuccia!

EVANS -

(c.s.)

Cerchiamo di non farci rider dietro

da costoro. Vi voglio essere amico,

e prima o poi ve ne darò ragione.

(Forte)

Io ti fracasso tutti i tuoi pitali

sopra quella tua zucca di furfante,

così impari a tener gli appuntamenti!

CAJUS -

Diable! Ragazzo, Oste, dite voi

se non l’ho atteso là, per ammazzarlo,

puntuale al luogo dell’appuntamento!

EVANS -

No, com’è fero che sono un cristiano,

è questo il posto ch’era stabilito.

M’appello al nostro Oste qui presente.

OSTE -

E l’Oste dice: pace, Gallia e Gaulia,

Francese e Celto, curatore d’anime

e curator di corpi.

CAJUS -

Ah, quest’è buona!

Eccellente davvero!

OSTE -

Pace, ho detto,

ed ascoltate quello che vi dico.

Sono, sì o no, un politico?

Sono, sì o no, un volpone? Un Machiavelli?

E dovrei perdermi il mio dottore?

No, lui mi dà pozioni ed espulsioni.

E dovrei forse perdermi il mio parroco,

il mio pastore, il mio don Ugo Evans?

No, lui m’insegna il buono ed il cattivo.

(Al dottor Cajus)

Tu, dammi qua la tua mano terrena…

(Gli prende la mano destra)

e tu la tua celeste… ecco, così.

(Prende anche la destra di don Ugo e la unisce a quella del dottor Cajus)

Emeriti rampolli della scienza,

son io che v’ho ingannati, tutti e due,

indirizzandovi a posti diversi.

I vostri cuori battono possenti,

la vostra pelle non ha avuto un graffio…

Una bella bevuta di vin cotto,

e chiusa la partita.

(A Page e a Zucca che intanto hanno provveduto a togliere le spade dalle mani dei due contendenti)

Quelle spade

depositatele al monte dei pegni.

Seguitemi, pacifici ragazzi,

seguitemi, seguitemi, seguitemi.

ZUCCA -

Mattacchione d’un Oste! Andiamo, gente.

STANGHETTA -

(A parte, sospirando)

Ah, la dolce Anna Page!


(Escono Zucca, Stanghetta, Page e l’Oste; Cajus e don Ugo restano indietro con Rugby)

CAJUS -

Allora l’Oste, se ho capito bene,

s’è burlato di noi.

EVANS -

È così, infatti,

ci ha presi entrambi come suoi zimbelli.

Voglio perciò che diventiamo amici

e uniamo insieme i nostri due cervelli

per vendicarci di questo rognoso,

verrucoso, tignoso, imbroglionissimo,

untuoso Oste della “Giarrettiera”.

CAJUS -

M’associo a voi, parbleu!, con tutto il cuore.

Lui m’ha condotto qui

dicendomi che c’era Annetta Page.

Dunque, parbleu!, ha ingannato anche me.

EVANS -

Gli spaccherò la zucca. Andiamo, prego.


(Escono)

 

 

 

SCENA II - Windsor, una strada presso la casa di Ford.

 

Entrano MEG PAGE e ROBIN: questi la precede di qualche

passo, incedendo sussiegosamente.

 

MEG -

No, no, va’ pure avanti, gallettino.

Tu sei abituato a far da seguito,

ma con me devi far da battistrada.

Che è meglio, far da guida agli occhi miei,

o guardar le calcagna del padrone?

ROBIN -

Preferisco, in coscienza,

andare avanti a voi, da vero uomo,

che andar da nano dietro al mio padrone.

MEG -

Ehi, là, che adulatore di ragazzo!

Sarai, già vedo, un vero cortigiano.


Entra FORD

FORD -

Signora Page! Che piacere incontrarvi!

Dove siete diretta, se m’è lecito?

MEG -

In coscienza, a vedere vostra moglie.

È in casa?

FORD -

Sì, e tanto affaccendata

quanto le basta per tenersi in piedi

in attesa di qualche compagnia.

Io penso che voi due,

se mai dovessero i vostri mariti

stirar le cuoia, vi risposereste.

MEG -

Ah, di questo potete star sicuro…

Due mariti diversi… e un po’ migliori…

FORD -

(Indicando Robin)

E da che parte viene

questo bel gallettino giravento?

MEG -

Non vi so proprio dire

che accidenti di nome ha la persona

da cui l’ha ricevuto mio marito.

(A Robin)

Ragazzo, come hai detto che si chiama

il cavaliere tuo padrone?

ROBIN -

Falstaff.

FORD -

Sir John Falstaff?

MEG -

Sì quello, proprio quello.

Mai che riesca a ricordarne il nome!

Tra lui e mio marito,

s’è creata una tale confidenza…

Allora, vostra moglie è in casa?

FORD -

Sì.

MEG -

(Inchinandosi per partire)

Con licenza, signore.

Non reggo più alla voglia di vederla.


(Esce con Robin, entrando in casa Ford)

FORD -

Ma Page è forse uscito di cervello?

Non ha più occhi? Non ha più giudizio?

O gli sono in letargo, o più non li usa.

Ma come! C’è tra i piedi quel ragazzo

che pare fatto apposta

per portare lontano venti miglia

una lettera, e mettertela a segno

come ti centra il bersaglio un cannone

sparando a cento passi di distanza,

e lui par quasi che ci prenda gusto

a propiziar le follie della moglie,

offrendo l’occasione ai suoi capricci!

Ora quella si reca da mia moglie

portando seco il paggetto di Falstaff…

Ma chi non fiuterebbe in questo vento

l’imminente scrosciare d’una pioggia?

Col paggetto di Falstaff… Bell’imbroglio!

Si son scoperte, le mogli ribelli!

Se ne corrono insieme a perdizione!

Bene. Prima sorprendo lui sul fatto,

e poi metto mia moglie alla tortura,

e strappo dalla fronte di Meg Page

il velo d’una falsa pudicizia;

e proclamo lo stesso mastro Page

un Atteone, cornuto e contento.

E tutto il vicinato, son sicuro,

non potrà che plaudir concordemente

a tal deciso mio comportamento.

(Si odono battere le ore all’orologio di Windsor)

L’orologio mi dà quasi l’avvio,

e la certezza mi sprona ad agire.

Falstaff è là, in casa mia. Ci vado!


Fa per partire, ma si trova a faccia a faccia con PAGE, ZUCCA, STANGHETTA, l’OSTE, EVANS, CAJUS e RUGBY, che stanno entrando

TUTTI -

Felici d’incontrarvi, mastro Ford!

FORD -

Eh, che bella brigata, in fede mia!

Ho in casa delle vere squisitezze.

Venite, favorite tutti, prego!

ZUCCA -

Non posso, mastro Ford, vi chiedo scusa.

STANGHETTA -

Anch’io devo scusarmi, mastro Ford.

Siamo invitati a pranzo da miss Anna,

e, francamente, non vorrei guastarmela,

per quant’oro si possa immaginare.

ZUCCA -

Sapete, abbiam proposto un matrimonio

tra Anna Page e questo mio nipote,

oggi dovremmo avere la risposta.

STANGHETTA -

(A Page)

Spero nel vostro assenso, papà Page…

PAGE -

Il mio l’avete già, mastro Stanghetta.

(A Cajus)

Mia moglie sta per voi, mastro dottore.

CAJUS -

Eh, certo, è me che ama la ragazza!

Così mi dice sempre la mia Quickly.

OSTE -

E di quel giovanotto, sì, quel Fenton,

che dite, mastro Page?

Quello sa volteggiare, sa ballare,

quello sprizza dagli occhi giovinezza,

compone versi e sa parlar pulito,

ed è tutto un profumo aprile-maggio.

Lui la conquisterà, vincerà lui!

Anzi, ce l’ha già in pugno, l’ha già vinta!

PAGE -

Non con il mio consenso, state certo.

Quel signorino là non ha un quattrino,

ha fatto parte della compagnia

di scapestrati col principe e Poins;

e poi viene da troppo alta estrazione,

e la sa troppo lunga… Niente, niente.

No, con le dita del mio patrimonio

quello non riannoderà un sol nodo

delle sue sgangherate condizioni.

La vuole? Se la prenda. Ma lei sola:

per i soldi ci vuole il mio consenso,

e questo va in tutt’altra direzione.

FORD -

Con tutto il cuore, signori, vi supplico,

resti qualcuno a pranzare con me.

Oltre alla buona tavola,

vi prometto che vi divertirete:

vi mostrerò qualcosa di speciale.

Mastro dottore, su, venite voi,

e voi, don Ugo e mastro Page, venite.

ZUCCA -

Allora vi saluto. Arrivederci.

(A parte a Stanghetta)

In casa di suo padre, lui assente,

potremo fare con più libertà

le nostre cose con Annetta Page.


(Esce con Stanghetta)

CAJUS -

Tu, Rugby, torna a casa. Vengo subito.


(Esce Rugby)

OSTE -

Arrivederci, cuoricini miei.

Io torno dal mio bravo cavaliere

a bere un buon canaria insieme a lui.

FORD -

(Tra sé)

Penso che arrivo io prima di te

a ber con lui canaria in dolci calici;

e gliela fo ballare, la canaria.

(Forte)

Venite allora, amici?

TUTTI -

Siam con voi

a veder questa cosa portentosa.


(Escono, entrando in casa Ford)

 

 

 

SCENA III - In casa di Ford. Sala con tre porte, una delle quali fiancheggiata da due finestre che danno sulla strada.
Un arazzo alla parete di destra, che scende fino a terra.
Una scala porta al piano superiore.

 

ALICE FORD e MEG PAGE sono in scena, affaccendate.

 

ALICE -

(Chiamando)

Ehi, oh!, Gianni, Roberto, sbrigatevi!

MEG -

Presto, presto, il cestone del bucato.

ALICE -

È pronto… Ohi, Roberto, siete sordi?


(Entrano dei servi col cestone della biancheria)

MEG -

Avanti, avanti.

ALICE -

Qui, posate qui.

MEG -

(Ad Alice)

Spiegate loro quel che debbon fare.

Alla svelta, però.

ALICE -

Uh, Santa Vergine!

Dunque, allora, voi due, Roberto e Gianni,

come ho detto, starete là, in dispensa,

pronti a venire fuori al primo cenno;

e, senza alcun indugio o esitazione,

vi caricate il cesto sulle spalle

e difilato ai prati di Duchet,

dove si trovano le lavandaie,

ed una volta là, lo rovesciate

sulla riva melmosa del Tamigi.

MEG -

Avete inteso bene?

ALICE -

Gliel’ho detto e ridetto mille volte:

non han bisogno d’altro.

(Ai due servi)

Andate là,

e uscite appena sarete chiamati.


(Escono i servi)


Entra ROBIN

MEG -

Ecco il piccolo Robin.

ALICE -

Allora, falchettino, che ci dici?

RUGBY -

Signora Ford, Sir John, il mio padrone

è qui alla vostra porta di servizio,

e chiede di vedervi.

MEG -

Senti un po’, pupazzetto da vetrina,

non ci avrai mica scoperte con lui?

ROBIN -

Oh, no, posso giurarlo. Il mio padrone

non sa nemmeno che voi siete qui;

vi dico, anzi, che m’ha minacciato

di mettermi per sempre in libertà

se ve n’avessi detto qualche cosa.

Ha giurato di mettermi sul lastrico.

MEG -

Bravo ragazzo! La tua discrezione

sarà il tuo sarto: t’avrà guadagnato

un bel farsetto e due gambali nuovi.

Vado a nascondermi.

ALICE -

Andate, presto!

(A Robin)

Torna dal tuo padrone

e digli che mi trovo sola in casa.


(Esce Robin)


Signora Page, ricordatevi bene,

mi raccomando, quando tocca a voi,

d’entrare in scena.

MEG -

Contateci pure,

e se dovessi sbagliare, fischiatemi.


(Esce)

ALICE -

Lo dobbiamo conciare per le feste

questo fetido untuoso viscidume,

questo popone riempito d’acqua;

gl’insegneremo una volta per sempre

a distinguer le tortore dai corvi!


Entra FALSTAFF dalla porta opposta a quella da dove è uscita Meg

FALSTAFF -

“Alfin ti tengo, o mio divin gioiello!”

Ch’io muoia ormai, ché assai avrò vissuto!

D’ogni mia ambizione è questo il culmine!

Ora sublime di beatitudine!

ALICE -

O soave sir John!

(Si abbracciano)

FALSTAFF -

Signora Ford,

io non son uomo da lisciar le donne

o usar con loro dolci paroline.

Ti confesso un colposo desiderio:

vorrei che tuo marito fosse morto.

Proclamerei davanti al Re dei Re

che vorrei fare di te la mia lady.

ALICE -

Io, sir John, vostra lady?… Ahimè, sir John,

quale meschina lady sarei io!

FALSTAFF -

Che me ne mostri un’altra più regale

l’intera corte di Francia. Il tuo occhio

potrebbe gareggiare col diamante,

la tua fronte ha l’arcuata venustà

che s’addice alla foggia dei capelli,

a carena di nave, a vela al vento,

o ad altra superba acconciatura

ammessa dalla moda di Venezia.

ALICE -

Un fazzoletto, sir John, e nient’altro

s’addice alla mia fronte, ed anche quello

nemmeno tanto bene.

FALSTAFF -

Avanti a Dio,

sei tiranna a te stessa a dir così!

Tu saresti una gran dama di corte,

ed il fermo equilibrio del tuo piede

ti darebbe un incedere armonioso

nel semicerchio del tuo guardinfante.

So ben io quale donna tu saresti,

se Fortuna ti fosse stata amica

per quanto amica t’è stata Natura.

Suvvia, non fingere di non saperlo!

ALICE -

Oh, nulla c’è di questo in me, credetemi.

FALSTAFF -

Che cos’è allora che di te m’attira?

Questo solo dovrebbe persuaderti

che c’è qualcosa in te di straordinario.

Io non uso parole di lusinga,

non so dirti: “Sei questo, sei quest’altro”,

come fan certi mammoletti in boccio

balbettando, che se ne vanno in giro

come femmine in abito maschile

e profumano l’aria come Blùcklesbury

al tempo delle semplici.

Questo non lo so fare. Ma io t’amo!

Amo te sola, e tu ne sei ben degna!

ALICE -

Ah, per pietà, sir John, non m’ingannate!

Ho paura che dentro il vostro cuore

ci sia piuttosto la signora Page.

FALSTAFF -

A sentirti dir questo,

è come se t’udissi rinfacciarmi

che mi piace d’andare avanti e indietro

all’ingresso del carcere per debiti;

cosa che mi sarebbe più indigesta

che respirare vapori di calce.

ALICE -

Sa il cielo quanto v’amo…

e verrà il giorno che l’accerterete.

FALSTAFF -

Serbatevi così. Ne sarò degno.

ALICE -

Degno lo siete già;

non m’avreste trovata, devo dirlo,

se no, con animo sì ben disposto.


Rientra ROBIN

ROBIN -

Signora Ford, signora, c’è alla porta

madama Page sudata, trafelata,

tutta sconvolta, vuol vedervi subito.

FALSTAFF -

Oh, Dio! Non voglio che mi trovi qui!

Mi nascondo… là, dietro quell’arazzo.

ALICE -

Oh, sì, per carità, che non vi veda!

Quella è una donna tanto linguacciuta!


(Falstaff va a nascondersi dietro l’arazzo)


Entra MEG PAGE


Ebbene, che c’è dunque? Che succede?

MEG -

Ohimè, signora Ford, che avete fatto?

Siete disonorata, svergognata,

rovinata… per sempre!

ALICE -

Ma che dite!

Signora Page, mia cara, che vi prende?

MEG -

Ohimè, signora Ford…

con un tal galantuomo di marito,

dargli questi motivi di sospetto!

ALICE -

Motivi di sospetto!… Che motivi?

MEG -

Che motivi… E lo chiedete a me?

Ah, che m’ero sbagliata su di voi!

ALICE -

Insomma, via, che c’è? Di che si tratta?

MEG -

Donna, vostro marito sta venendo

insieme a tutte le guardie di Windsor

in cerca di qualcuno: un gentiluomo,

egli dice, che è qui, tra queste mura,

e per di più con il vostro consenso,

per profittare della sua assenza

a sconci fini… Siete rovinata!

ALICE -

Ah, spero che non sia come voi dite!…

MEG -

Pregate il cielo che non sia così,

che non l’abbiate in casa, quel signore…

Quello che è più che certo

è che vostro marito sta arrivando

con mezza Windsor alle sue calcagna,

risoluto a cercar questo qualcuno;

ed io son corsa ad avvertirvi in tempo.

Se vi sentite in tranquilla coscienza,

tanto meglio per voi, ne son felice;

ma se avete un amico dentro casa,

mandatelo, mandatelo via subito!

Non state lì tutta trasecolata,

richiamatevi tutti i vostri spiriti,

difendetevi la reputazione

o vi toccherà dir per sempre addio

alla vostra beata e bella vita!

ALICE -

Che devo fare? C’è qui un gentiluomo,

un caro amico; e temo più per lui

che per la stessa mia reputazione.

Come faccio?… Darei mille sterline

pur di saperlo lontano da qui.

MEG -

Vergogna! Ma non state ad indugiare

adesso tra il “darei” e “non darei”.

Muovetevi! Vostro marito è qui.

Escogitate qualche scappatoia:

in casa, qui, non potete nasconderlo…

Ah, come son delusa su di voi!…

Oh, qui c’è un un grosso cesto…

Se fosse di statura ragionevole

ci si potrebbe rannicchiare dentro,

e ci buttate sopra i panni sporchi

come dovessero andare al bucato;

anzi, siccome il giorno del bucato

è proprio oggi, chiamate due uomini

che lo portino via, dentro quel cesto,

ai prati di Dachet.

ALICE -

È troppo grosso

per entrare là dentro… Che facciamo?…

FALSTAFF -

(Uscendo da dietro l’arazzo)

Vediamo un po’… vediamo…

Ci posso stare, sì, ci posso stare…

(Ad Alice)

Date retta alla vostra amica: c’entro.

MEG -

Che! Sir John Falstaff?… Voi!

(A parte, a Falstaff)

È questo che mi dite, cavaliere,

nella lettera?

FALSTAFF -

Io amo te sola,

e nessun’altra. Aiutami a scappare.

Se ce la faccio a infilarmi là dentro,

ti giuro che mai più…


(Entra nel cesto. La due donne lo ricoprono con

biancheria da mandare al bucato)

MEG -

(A Robin)

Su, su, ragazzo,

aiutami a coprire il tuo padrone.

(A parte, a Falstaff)

Ipocrita d’un cavaliere!…

ALICE -

(Chiamando)

Ehi, voi,

Roberto, Gianni, su, venite fuori!


Rientrano i due SERVI


Portate via questi panni, ma presto!

Dov’è la pertica?… Su, pelandroni!

Alla lavanderia di Dachet… Su, alla svelta!


Mentre i due servi, sollevato il cesto con la pertica e incollatolo stan per uscire, si spalanca la porta che dà sulla strada ed entrano FORD, PAGE, il dottor CAJUS e don Ugo EVANS.

FORD -

(Ai tre che lo seguono)

Avanti, avanti, favorite, prego!

E se trovate che i sospetti miei

sono infondati, sghignazzate pure

alle mie spalle, fate pur di me

il vostro spasso. L’avrò meritato.

(Ai servi che stanno uscendo col cesto)

E voi, con quella roba?… Dove va?

UN SERVO -

Dove volete che vada? Al bucato.

ALICE -

Eh, che t’impicci tu dove lo portano?

T’interessi di panni sporchi adesso?

FORD -

Panni sporchi? Ce n’è in questa casa,

da farci un bel bucato…


(Escono i servi col cestone)


Miei signori, stanotte ho fatto un sogno

che desidero proprio raccontarvi…


(Distribuisce a ciascuno dei tre delle chiavi)


A voi… a voi… a voi…

Sono tutte le chiavi della casa,

salite su alle camere, cercate,

rovistate, frugate dappertutto:

staneremo la volpe, garantito!

Prima però convien chiudere questa.


(Chiude a chiave la porta da cui sono entrati)


Ed ora, via alla caccia! Sguinzagliamoci!

PAGE -

Mio caro Ford, non v’agitate troppo,

vi può far male.

FORD -

È vero, mastro Page.

Ma su, salite, vi divertirete!

Seguitemi, seguitemi, signori!


(Page, Cajus e don Evans salgono con Ford al piano superiore)

MEG -

Così ci procuriamo un doppio spasso.

ALICE -

Non so che cosa sia più divertente,

la delusione data a mio marito

o quella a sir John Falstaff.

MEG -

Poveretto!

Chi lo sa che paura,

quando ha sentito che vostro marito

ha chiesto ai servi quel che c’è nel cesto!

ALICE -

Ho anche mezza idea

che avrà pure bisogno di lavarsi,

tanto che ad essere buttato in acqua

gli avrà recato un certo beneficio.

MEG -

S’impicchi, disonesto manigoldo!

Per me, vorrei che questo trattamento

toccasse a tutti quelli del suo stampo.

ALICE -

Mio marito però qualche ragione

di sospettar che Falstaff era qui,

doveva averla; perché prima d’oggi

non ricordo d’averlo visto mai

così accecato dalla gelosia.

MEG -

Questo studierò il modo di appurarlo.

Pensiamo adesso a come architettare

qualche altra burla alle spalle di Falstaff;

perché non basta questo solo farmaco

a guarirlo del suo male lascivo.

ALICE -

Se gli mandassimo madama Quickly,

quella vecchia carcassa testamatta,

a recargli le nostre vive scuse

per quel bagno forzato,

e a suscitare in lui nuove speranze

per attirarlo in un altro castigo?

MEG -

Detto fatto: invitiamolo da noi

domattina alle otto, per scusarci


Rientrano, da sopra, FORD, PAGE, CAJUS e EVANS.

FORD -

Non s’è trovato… Forse quel cialtrone

ha soltanto voluto menar vanto

di cosa che non gli riuscì ottenere.

MEG -

(A parte ad Alice)

Avete udito?

ALICE -

(Con aria risentita)

Mi trattate bene,

eh, mastro Ford!

FORD -

Infatti, molto bene.

ALICE -

Ti renda il ciel miglior dei tuoi pensieri.

FORD -

Amen.

MEG -

A comportarvi in questo modo,

fate torto a voi stesso, mastro Ford.

EVANS -

Dio mi pertoni tutti i miei peccati

il ciorno del Ciudizio unifersale,

se nella casa c’è anima viva,

sia nelle camere, sia negli armadi,

e sia nei cassettoni…

CAJUS -

E così a me, parbleu;

nessuno.

PAGE -

Che figura, mastro Ford!

Si può sapere quale Satanasso

v’ha messo in capo certe fantasie?

Non mi vorrei sentire, v’assicuro,

così scornato, per tutti i tesori

del castello di Windsor!

FORD -

Colpa mia, mastro Page, sì, tutta mia,

e tutta mia ne sia la sofferenza.

EVANS -

Di fostra sofferenza è solo origine

la vostra stessa cattiva coscienza:

vostra moglie è una donna costumata.

Ce ne fosse pur una come lei

in mezzo a cinquemila,

che dico, pure in mezzo a cinquecento!

CAJUS -

Così pare anche me che sia, parbleu.

FORD -

Bene, vi avevo promesso un pranzetto.

Prima facciamo due passi nel parco.

Vi prego di volermi perdonare.

Dopo vi spiegherò perché l’ho fatto.

Suvvia, moglie, suvvia, signora Page,

vi prego, perdonatemi…

Con tutto il cuore prego: perdonatemi!

PAGE -

(A Cajus ed Evans)

Bene, andiamo, signori.

(A parte ai due)

Ma, intendiamoci:

non cesseremo di prenderlo in giro.

(Forte)

Domani, a casa mia per colazione;

poi si va tutti insieme ad uccellare.

Ho un falco prodigioso, un fruga-fratte.

Vi sta bene?

FORD -

Come volete voi.

EVANS -

Se c’è già il primo, io sarò il secondo.

CAJUS -

E se ci saran già primo e secondo,

io non mi tiro indietro a fare il terzo.

FORD -

Vi prego, mastro Page, accomodatevi.

EVANS -

(A parte, a Cajus)

Domani ricordiamoci, vi prego,

di quell’oste, quel lurido furfante.

CAJUS -

E come no, parbleu!, con tutta l’anima.

EVANS -

Pitocchioso furfante!

Permettersi con noi scherzi del genere!


(Escono tutti)

 

 

 

SCENA IV - Davanti alla casa di Giorgio Page

 

FENTON e ANNETTA sono seduti sotto un albero

 

FENTON -

A tuo padre non vado proprio a genio.

È inutile, perciò, mia dolce Annetta,

che mi chiedi di andare ancor da lui.

ANNA -

Allora?

FENTON -

Allora decidi tu stessa.

Dice che son troppo alto di natali

e che, siccome ho tutto sperperato

dei miei averi, spendendo e spandendo,

voglio rimpannucciarmi ora col suo.

Eppoi mi mette avanti altre barriere:

i miei trascorsi di sregolatezze,

le mie poco pulite compagnie…

e dice che per lui non è possibile

ch’io t’ami altro che pei tuoi quattrini.

ANNA -

Forse è nel vero…

FENTON -

No, Anna, ti giuro,

così potesse esaudire il cielo

i mie voti!… Seppure, lo confesso,

all’inizio gli averi di tuo padre

siano stati la molla che m’ha spinto

a corteggiarti, standoti vicino,

ho scoperto che in te, Annetta mia,

c’è più valore di tutto il suo oro

e di tutti i suoi sacchi di monete.

È la ricchezza che tu porti in te

cui io aspiro.

ANNA -

Fenton mio cortese,

conquistatevi il cuore di mio padre,

riprovateci ancora, signor mio.

Se poi, malgrado tutte le occasioni,

malgrado le più umili insistenze,

non s’approderà a nulla, ebbene allora…


Si alzano traendosi in disparte e continuando a parlare, quando improvvisamente s’apre la porta di casa Page e ne escono ZUCCA, STANGHETTA e QUICKLY

ZUCCA -

(A Quickly, indicando Annetta e Fenton)

Interrompeteli, madama Quickly:

Ora deve parlarle mio nipote.

STANGHETTA -

Oh, giusto per scoccar uno-due strali,

così, e vedere quello che succede…

ZUCCA -

Sì, ma senza lasciarti intimidire.

STANGHETTA -

Oh, non è lei che mi può intimidire!

Non è questo… È questione che ho paura.

QUICKLY -

(Avvicinandosi ad Annetta)

Ecco, sentite, c’è mastro Stanghetta

che vuol dirvi qualcosa.

ANNA -

Vengo subito.

(A parte a Fenton)

È quello il candidato di mio padre.

Ohibò, guardate come un universo

di schifosa bruttezza e di difetti

può riuscire attraente

grazie a trecento sterline di rendita.

QUICKLY -

E come va il mio bravo mastro Fenton?

(Traendolo in disparte)

Di grazia, vorrei dirvi una parola.


(Si apparta con Fenton. Annetta va verso Zucca)

ZUCCA -

Eccola, viene. Va’ da lei, nipote.

Oh, ragazzo, tu hai avuto un padre.

STANGHETTA -

Un padre, sì, madamigella Anna,

l’ho avuto, e qui mio zio può anche dirvi

un sacco di facezie su di lui…

Vi prego, zio, raccontate a miss Anna

di quella volta che il babbo rubò

due oche dal pollaio… Avanti, zio!

ZUCCA -

(Senza curarsi di Stanghetta)

Miss Anna, mio nipote vi vuol bene.

STANGHETTA -

Ah, sì, certo, che bene gliene voglio,

come lo voglio a qualunque altra donna

della Contea di Gloucester…

ZUCCA -

(c.s.)

… V’assicuro,

vi farà fare vita da signora…

STANGHETTA -

E sì, perdio, a corto e lungo termine,

come si spetta ad uno ch’è inferiore

d’un sol gradino a quello di scudiero.

ZUCCA -

… E vi garantirà un vitalizio

annuo di centocinquanta sterline.

ANNA -

Mastro Zucca, lasciate parlar lui,

vi prego.

STANGHETTA -

Giusto, sì, ve ne ringrazio!

Vi ringrazio dell’incoraggiamento.

ZUCCA -

(A Stanghetta)

Nipote, vuole che le parli tu.

Io vi lascio.

(Si allontana)

ANNA -

Sicché, mastro Stanghetta…

STANGHETTA -

Sicché, mia buona signorina Annetta…

ANNA -

Qual è dunque la vostra volontà?

STANGHETTA -

La volontà… la mia… Cuore di Dio,

questa è davvero bella!

Io non ho fatto ancora testamento,

deograzia, non son proprio una creatura

così male in salute, lode al cielo!

ANNA -

Volevo intendere, mastro Stanghetta,

che cos’è che volete voi da me.

STANGHETTA -

Per parte mia, a dir la verità,

da voi non voglio nulla… o quasi nulla.

Sono stati mio zio e vostro padre

a prendersi la briga per mio conto;

e, se la cosa si può fare, bene;

se no, fortuna arriva al preferito.

Essi vi possono spiegare meglio

come stanno le cose.

Domandatelo pure a vostro padre,

vedo che sta venendo.


Entrano, uscendo di casa, Giorgio PAGE e la moglie MEG

PAGE -

Salute, mastro Adamo.

Anna, figliola mia, vogligli bene.

(Scorgendo Fenton)

Ebbene, che ci fa qui mastro Fenton?

(A Fenton)

Questo trovarvi sempre in casa mia,

signore, non mi torna affatto a genio.

V’ho già detto, mi pare, e ripetuto

che questa mia figliola è già impegnata.

FENTON -

Evvia, buon mastro Page, non arrabbiatevi.

MEG -

Mastro Fenton, davvero: per favore,

non venite più dietro alla mia bimba.

PAGE -

Non è roba per voi!

FENTON -

Signore mio,

posso parlarvi almeno un sol momento?

PAGE -

È inutile. Venite, mastro Zucca,

entrate.

(A Stanghetta)

Su, figliolo, favorite.

(A Fenton)

Poiché sapete già come la penso,

m’infastidite solo, mastro Fenton!


(Escono Page, Zucca e Stanghetta, entrando in casa Page).

QUICKLY -

(A Fenton)

Ecco, parlate alla signora Page.

FENTON -

(A Meg)

Buona signora, io amo vostra figlia

d’un sentimento sì serio ed onesto,

che son costretto a issare il suo vessillo

sopra ogni ostacolo, sgarbo, ripulsa,

senza dover indietreggiare un pollice.

Ch’io abbia almeno il vostro benestare.

ANNA -

Madre mia santa, per l’amor di Dio,

non mandatemi sposa a quel babbeo!

MEG -

Non ci penso nemmeno, figlia mia.

Per te tua madre ha in mente d’assai meglio.

QUICKLY -

Il dottor Cajus, eh?, il mio padrone…

ANNA -

Ah, no! Magari sotterrata viva,

e lapidata a morte con i cavoli!

MEG -

Beh, mastro Fenton, non vi date pena:

non vi sarò né amica né nemica;

voglio solo sentire da mia figlia

fino a che punto ella sente di amarvi,

e poi deciderò in conseguenza.

Fino allora, signore, arrivederci.

Anna deve rientrare in casa subito,

se non vuol che suo padre vada in bestia.

FENTON -

Signora, arrivederci. Addio, Annetta.


(Escono, rientrando in casa, Meg e Annetta)

QUICKLY -

(A Fenton)

Tutto merito mio. “Eh, no - le ho detto,

non getterete ai cani vostra figlia

dandola ad un babbeo o ad un cerusico!

Ma guardatelo bene, il signor Fenton!”

Tutto merito mio.

FENTON -

Te ne ringrazio,

e ti prego portare, appena notte,

questo anello alla mia dolce Nannina.

(Le consegna un anello)

Questo è pel tuo disturbo. Arrivederci.


(Le dà del denaro ed esce)

QUICKLY -

(Seguendolo con lo sguardo)

Ti mandi il cielo la buona fortuna.

Che cuore generoso! Non c’è donna

che per un cuore così generoso

non passerebbe sul fuoco e sull’acqua…

Eppure non mi spiacerebbe affatto

che l’Annetta l’avesse il mio padrone…

o anche, perché no? mastro Stanghetta…

oppure, sì, questo giovane Fenton.

Farò quanto potrò per tutti e tre,

perché così ho promesso,

anche se un po’ di più per mastro Fenton…

Ma che bestia son io, a stare qui

a ciondolarmi così fino ad ora!


(Esce)

 

 

 

SCENA V - La locanda della “Giarrettiera”. Mattina.

 

FALSTAFF sta scendendo dalla sua camera.

 

FALSTAFF -

(Chiamando)

Bardolfo!

BARDOLFO -

(Comparendo da una porta)

Son qua, signore. Agli ordini!

FALSTAFF -

Vammi a prendere un quarto di vin cotto

ed inzuppaci un buon crostino caldo.


(Esce Bardolfo. Falstaff scende e si siede)


Sarò dunque vissuto fino ad oggi

per esser trasportato in un cestone

e gettato nell’acqua del Tamigi

come i rifiuti d’una beccheria?…

Ah, mi dovesse ancora capitare

di cader dentro a una simile trappola,

meglio farmi strappare le cervella

e friggerle nel burro a fuoco lento,

per poi buttarle da mangiare ai cani

in regalo per cena a Capodanno!

M’han buttato nel fiume, quei furfanti,

con la stessa svagata noncuranza

che se dovessero affogare in acqua

una covata di catelli ciechi:

e potete capir, dalla mia mole,

s’io abbia una speciale propensione

ad affogare con facilità;

fosse pur stato il letto di quel fiume

più profondo del fondo dell’inferno,

si può star certi che l’avrei toccato;

non fosse stato il livello dell’acqua

così basso, sarei certo affogato…

Una morte che aborro, perché l’acqua

ti gonfia piano piano tutto il corpo,

e figurarsi allora che spettacolo

sarei stato, più gonfio che già sono!

Una montagna di carne, perdio!


Rientra BARDOLFO con il vino

BARDOLFO -

Monsignore, c’è qui madama Quickly

che vorrebbe parlarvi.

FALSTAFF -

Vieni, vieni,

fammi prima versare un po’ di vino

sull’acqua del Tamigi. Ho freddo in pancia

manco avessi inghiottito, come pillole,

palle di neve a rinfrescar le reni.

Falla venire.

BARDOLFO -

Avanti, buona donna.


Entra QUICKLY

QUICKLY -

Con permesso… Vi prego di scusarmi…

Buongiorno a vostra signoria illustrissima.

FALSTAFF -

(A Bardolfo, dopo aver bevuto tutto)

Porta via questa roba,

e preparami un beverone caldo.

BARDOLFO -

Con le uova, signore?

FALSTAFF -

No, senza.