– Così non avrai da far altro che mantenerti caldo.

Era questo un nuovo esempio della generosità dello zio. Nicola si sentì commosso di tanta bontà inattesa, che appena potè trovar delle parole per ringraziarlo; e non ne aveva trovate neppure la metà quando si congedarono dall'insegnante e uscirono dal portone della Testa di Saraceno.

– Mi troverò qui domattina a vederti partire – disse Rodolfo. – Che non ci siano pentimenti.

– Vi ringrazio, zio – rispose Nicola, – non dimenticherò mai la vostra bontà.

– Cerca di non dimenticare – continuò lo zio, – ora faresti meglio a tornare a casa; e prepara ciò che hai da preparare. Ma prima di tutto credi di saper trovare Golden Square?

– Certo – rispose Nicola, – ad ogni modo posso facilmente domandare.

– Porta queste carte al mio impiegato, allora – disse Rodolfo, dandogli un plico, – e digli di aspettare fino al mio ritorno.

Nicola si assunse lietamente questa commissione, e dando al degno zio un affettuoso saluto, al quale il generoso vecchio rispose con un grugnito, si mise a correre.

Egli trovò regolarmente Golden Square; e il signor Noggs, che era andato per un paio di minuti all'osteria, stava aprendo la porta quando fu raggiunto sui gradini da Nicola.

– Che c'è? – chiese Noggs, indicando il plico.

– Le carte che vi manda mio zio – rispose Nicola, – e poi dovete aver la bontà, per piacere, di aspettarlo finché non ritorna.

– Vostro zio! – esclamò Noggs.

– Il signor Nickleby, – disse Nicola, a mo' di spiegazione.

– Entrate, – disse Noggs.

Senza aggiungere parola condusse Nicola nel corridoio e di là nella credenza ufficiale in fondo, dov'egli lo cacciò in una poltrona, e salendo sul suo alto sgabello, se ne stette con le mani penzoloni sui fianchi, guardando fisso il giovane come da una torretta d'esplorazione.

– Non c'è risposta – disse Nicola, mettendo il plico su un tavolino accanto.

Newman non disse nulla, ma incrociando le braccia e sporgendo il capo come per aver una visione più vicina della faccia di Nicola, ne osservò minutamente le fattezze.

– Nessuna risposta – disse Nicola, parlando ad alta voce, con l'idea che Newman fosse sordo.

Newman si mise le mani sulle ginocchia, e, senza pronunciare una sillaba, continuò sempre lo stesso minuto esame della faccia del compagno.

Era questo un procedimento così bizzarro da parte d'un estraneo, e il suo aspetto era tanto singolare, che Nicola, il quale aveva un senso abbastanza acuto del ridicolo, non potè frenarsi dallo scoppiare in una risata, quando chiese al signor Noggs se avesse comandi da dargli.

Noggs scosse il capo e sospirò: al che Nicola si levò, e notando che quegli non chiedeva altro gli diede il buon giorno.

Fu un gran sforzo per Newman Noggs, e nessuno sa finora come mai riuscisse a compierlo, giacchè l'altro gli era perfettamente sconosciuto, ma egli trasse un lungo respiro e poi disse veramente ad alta voce, senza fermarsi neppure una volta, che aveva la curiosità di sapere, se il giovine non ci vedeva difficoltà, che cosa lo zio intendesse di fare per lui.

Nicola che non ci vedeva alcuna difficoltà al mondo, ebbe invece piacere d'aver l'occasione di parlare del soggetto che gli occupava tutti i pensieri; così tornò a sedere e, (riscaldato nel discorso dalla sua sbrigliata fantasia) si slanciò in una fervida e abbagliante descrizione di tutti gli onori e i vantaggi che gli potevano derivare da quella sede di sapere e di dottrina ch'era Dotheboys Hall.

– Ma che avete, vi sentite male? – disse Nicola, a un tratto interrompendosi, mentre il compagno, dopo essersi abbandonato ad una varietà di strani atteggiamenti, ficcava le mani sotto lo sgabello e faceva schioccare le giunture delle dita, come se volesse romperne tutte le ossa.

Newman Noggs non rispose, ma continuò a scrollare lo sgabello e a far schioccare le dita, orribilmente sorridendo intanto, e guardando fisso il vuoto, con gli occhi fuori della testa in maniera spettrale.

Sulle prime Nicola pensò che quel misterioso uomo fosse in preda a un accesso epilettico; ma, considerando meglio le cose, concluse ch'era ubbriaco e che fosse prudente svignarsela subito. Guardò indietro dopo che ebbe aperta la porta. Newman Noggs continuava a fare gli stessi bizzarri gesti, con uno schiocco delle dita sempre più forte.

Capitolo 5

Nicola parte per il Yorkshire. – Del suo congedo e dei suoi compagni di viaggio, e di ciò che gli accadde per strade.

Se le lacrime versate in un baule fossero amuleti capaci di difendere il suo proprietario dalle afflizioni e dalle disgrazie, Nicola Nickleby avrebbe cominciato sotto i più felici auspici il viaggio che lo aspettava. V'era tanto da fare e così poco tempo davanti, tante buone parole da dire, e nei cuori in cui si formulavano tanta ambascia a impedire che fossero pronunciate, che i piccoli preparativi della spedizione si svolsero veramente in un'aria lugubremente triste.

Nicola s'intestava a non voler portarsi dietro un centinaio di cose che la sollecitudine della madre e della sorella riteneva indispensabili al suo benessere, mentre gli oggetti potevano loro riuscir utili in seguito, o esser convertiti in denaro in caso di bisogno. Un centinaio di affettuosi dibattiti di questa specie avvennero quella malinconica sera che precedette la sua partenza; e siccome il termine d'ogni tranquilla disputa li avvicinava sempre più al termine dei loro piccoli preparativi, Caterina si: mostrò sempre più affaccendata, e si mise a piangere in silenzio.

Il baule fu infine terminato, e poi venne la cena, con qualche piccola leccornia preparata per l'occasione, la quale, per il risarcimento della spesa sostenuta, fece fingere a Caterina e alla madre d'aver desinato nell'ora che Nicola era fuori. Il povero giovane arrischiò di strozzarsi nell'atto di mangiarla, e mancò poco non si soffocasse un paio di volte nel tentare qualche facezia e nello sforzarsi melaconicamente di sorridere. Così s'indugiarono finché il momento di separarsi per la notte non fu già da parecchio trascorso; e poi trovarono che sarebbe stato meglio aver dato sfogo ai loro sentimenti prima, giacchè per quanto facessero, non riuscivano a celarli. E così diedero loro libero corso, trovando anche in questo un sollievo.

Nicola dormì bene fino alle sei; sognò di casa sua o di ciò ch'era casa sua una volta – non importa se sua o no, perché ciò ch'era mutato o svanito, grazie a Dio ritorna in sogno come soleva essere una volta – e si levò lieto ed arzillo. Scrisse un po' di righe col lapis per dire l'addio che temeva di pronunciar oralmente, e deponendole con metà del suo scarso peculio sulla soglia della sorella, si mise il baule sulle spalle, e discese pian piano la scala.

– Sei tu, Anna? – gridò una voce dallo studio della signorina La Creevy, donde veniva un fioco barlume,

– Sono io, signorina La Creevy, – disse Nicola, deponendo in terra il baule, e guardando nella stanza.

– Dio del Cielo! – esclamò la signorina La Creevy, balzando in piedi e portandosi la mano alle cartucce dei capelli. – Vi siete levato molto presto, signor Nickleby,

– Anche voi, – rispose Nicola.

– Son le belle arti che mi cacciano fuori dal letto, signor Nickleby; – rispose la donna. – Aspetto la luce per l'esecuzione d'un'idea.

La signorina La Creevy s'era levata presto per mettere un naso di fantasia nella miniatura d'un brutto piccino, destinato a una nonna in campagna, che, si sperava, gli avrebbe lasciato il suo patrimonio se vi avesse trovato una rassomiglianza di famiglia.

– Per l'esecuzione di un'idea, – ripetè la signorina La Creevy; – e questa è la gran comodità di abitare in una via come lo Strand. Quando io ho bisogno d'un naso o d'un occhio per qualche cliente speciale, non ho che guardar fuori ed aspettare finché lo trovo.

– Ci vuol molto a trovare un naso, dunque? – chiese Nicola, sorridendo.

– Veramente, dipende in gran parte dalla qualità del modello, – rispose la signorina La Creevy. – Di nasi all'insù e di nasi romani ve n'è una certa quantità, e di nasi piatti d'ogni specie e dimensione ve n'è nei comizi di Exeter Hall; ma degli aquilini perfetti, mi dispiace dirlo, ve n'è pochi, e noi in generale li usiamo per gli ufficiali o i pubblici personaggi.

– Davvero! – disse Nicola. – Se ne incontro qualcuno in viaggio, mi sforzerò di schizzarlo per voi.

– Non intendete dire che realmente fate tutto il viaggio fino al Yorkshire con questo freddo e con questa brutta stagione, signor Nickleby? – disse la signorina La Creevy. – Ne ho udito qualcosa ieri sera.

– Veramente sì – rispose Nicola. – Si deve andare per necessità, sapete, quando c'è qualcosa che vi spinge. E il bisogno mi spinge. E il bisogno e la necessità sono la stessa cosa.

– Bene, me ne dispiace, ecco quel che posso dire – disse la signorina La Creevy, – tanto per vostra madre e vostra sorella, quanto per voi. Vostra sorella, signor Nickleby, è una bellissima ragazza; e questa è una ragione di più per aver qualcuno che la protegga. Io l'ho persuasa a concedermi un paio di sedute per metter la sua miniatura nella mostra. Oh, che bella miniatura che sarà! – Così dicendo la signorina La Creevy, prese un ritratto sull'avorio traversato da piccole vene azzurre, e lo guardò con tanta compiacenza, che Nicola quasi lo invidiò.

– Se avete l'occasione di fare a Caterina qualche piccola cortesia – disse Nicola, offrendole la mano, – credo che lo farete.

– Siatene pur certo – disse con amorevolezza la pittrice di miniature, – e Iddio vi benedica, signor Nickleby; io vi auguro tanto bene.

Nicola aveva scarsissima esperienza del mondo, ma ne indovinava abbastanza le idee, per sapere che se egli avesse dato un bacetto alla signorina La Creevy, forse questa si sarebbe sentita più gentilmente disposta verso quelle ch'egli era costretto a lasciare a Londra. Così gliene diede tre o quattro con una specie di allegra galanteria, e la signorina La Creevy non mostrò maggiore indizio di dispiacere, o uno più forte della seguente dichiarazione, nell'atto che s'accomodava il turbante giallo, che lei non aveva mai sentito una cosa simile, e che non l'avrebbe mai creduta possibile.

Chiuso l'inatteso colloquio in questa maniera soddisfacente, Nicola s'affrettò ad uscire. Quand'ebbe trovato un facchino che gli portasse il baule, erano ancora le sette: così si mise a camminare a passo lento, precedendo l'uomo, e molto probabilmente non avendo in petto neppure la metà della leggerezza di cuore del compagno, il quale non aveva alcuna sottoveste che lo coprisse, ed evidentemente, dall'aspetto degli altri indumenti, aveva passato la notte in una stalla, e fatto colazione a una pompa.

Guardando, con non poca curiosità e interesse, tutti gli affaccendati preparativi per il nuovo giorno che si svolgevano in ogni via e quasi in ogni casa, e pensando, di quando in quando, ch'era doloroso l'essere costretto a viaggiare per procacciarsi una occupazione, mentre tanta gente di ogni classe e grado poteva guadagnarsi da vivere a Londra, Nicola arrivò presto alla Testa di Saraceno nel Monte di Neve. Congedato il facchino e assicuratosi del sicuro deposito del baule nell'ufficio della diligenza, guardò nella casa del caffè in cerca del signor Squeers.

Trovò quel sapiente seduto a colazione coi tre ragazzini già da lui visti e con altri due condotti lì da qualche caso fortunato dopo il colloquio del giorno precedente. Essi erano schierati in una sola fila sul canapè di fronte, e il signor Squeers che aveva dinanzi una tazzina di caffè, un piatto di crostini caldi e una bella fetta di manzo, era in quel momento occupato a preparare la colazione per i piccini.

– Questo è quattro soldi di latte, cameriere? – disse il signor Squeers, guardando in un grosso recipiente turchino, e inclinandolo leggermente in modo da poter veder la quantità esatta del liquido che conteneva.

– Sì, quattro soldi, – rispose il cameriere.

– Dev'esser, il latte, una bevanda molto rara a Londra! – disse il signor Squeers con un sospiro. – Allora vuoi riempirmi questo recipiente con acqua tepida, Guglielmo?

– Fino all'orlo, signore? – chiese il cameriere.