Molti dei suoi primi e secondi piani sono appigionati ammobiliati a dei signori scapoli; e molte sono anche le pensioni. Quel luogo è un posto di convegno per i forestieri. Quegli uomini dalle carnagioni scure, che portano dei grossi anelli e delle pesanti catene di orologio e dei folti cespugli di fedine, e che si raccolgono sotto i portici dell'Opera e intorno all'ufficio dei biglietti durante la stagione, fra le quattro e le cinque del pomeriggio, ora della distribuzione delle entrate di favore, tutti abitano in Golden Square o in una via contigua. Due o tre violini e uno strumento a fiato dell'orchestra dell'Opera sono installati nelle sue vicinanze immediate. Le pensioni di Golden Square son molto musicali, e le note dei pianoforti e delle arpe fluttuano nell'aria vespertina intorno alla testa della lugubre statua che è il genio tutelare d'una piccola landa di cespugli nel centro della piazzetta. Le sere d'estate, le finestre si spalancano, e i passanti veggon dei gruppi di uomini bruni e baffuti appoggiati ai davanzali e occupati a fumare come camini. Suoni di rudi voci che si esercitano nella musica vocale invadono il silenzio della sera, e i fumi del tabacco più scelto profumano l'aria di tabacco in cenere; e sigari, pipe tedesche e flauti, violini e violoncelli si dividono la supremazia. È quella la regione del canto e del fumo. Le bande musicali si sforzano di dare le loro migliori prove in Golden Square, e i cantanti girovaghi tremano involontariamente levando la loro voce nell'ambito di quei confini.

Non sarebbe parso, quello, un luogo molto adatto alla trattazione degli affari; ma il signor Rodolfo Nickleby vi aveva abitato, ciò nonostante, molti anni e non si era mai lamentato di nulla. Egli non conosceva nessuno del vicinato e nessuno conosceva lui, benchè godeva la fama di essere immensamente ricco. I commercianti credevano ch'egli fosse una specie d'avvocato, e gli altri vicini pensavano che fosse qualche agente generale: congetture, queste, così esatte e diffuse come in generale sono e possono essere tutte quelle che si fanno sulle faccende altrui.

Il signor Rodolfo Nickleby se ne stava nel suo studio un giorno già bell'e vestito per uscire. Indossava uno spencer verde bottiglia su una giacca azzurra, una sottoveste bianca, e un paio di calzoni grigi imboccati in un paio di stivali alla Wellington. La cocca d'una gala di camicia a pieghe minute cercava di mostrarsi, come meglio poteva, fra il mento e il primo bottone dello spencer, il quale non si allungava abbastanza per nascondere una lunga catena d'oro, composta d'una serie d'anelli lisci, che cominciava dall'impugnatura d'un orologio d'oro a ripetizione nella tasca del signor Nickleby e finiva con due piccole chiavi: l'una dello stesso orologio e l'altra di qualche lucchetto brevettato. Aveva una spolveratura di cipria in testa, come per darsi un aspetto di benevolenza; ma se questo era il suo scopo, avrebbe fatto meglio a incipriarsi il viso, perché perfino nelle sue rughe e nei suoi freddi occhi irrequieti, v'era qualcosa che sembrava parlasse d'una scaltrezza la quale si sarebbe rivelata a suo dispetto. Comunque si fosse, egli era lì; e siccome era solo soletto, e nè la cipria, nè le rughe, nè gli occhi producevano, appunto allora, il minimo effetto, buono o cattivo su nessuno in particolare, per naturale conseguenza ora appunto non c'importano affatto.

Il signor Nickleby chiuse nella scrivania un libro di conti, e abbandonandosi sulla poltrona, fissò con aria distratta i vetri sudici della finestra. Alcune case di Londra hanno dietro un melanconico pezzetto di giardino, chiuso di solito da quattro muri alti e guardati da una fila accigliata di comignoli: in esso languisce, di anno in anno, un alberello rachitico, che si studia di cacciare un po' di foglie negli ultimi giorni d'autunno quando gli altri alberi se ne spogliano, e, spossato nello sforzo, s'indugia, tutto screpolato e disseccato dal fumo, fino alla seguente stagione, per ripetere gli stessi tentativi e forse, se il tempo è particolarmente bello, per attirare a cinguettare fra i suoi rami qualche passero afflitto dai reumi. A volte la gente chiama "giardino" quei cortiletti bui: non si crede che vi siano state fatte mai delle piantagioni, ma piuttosto che sian pezzi di terra abbandonata, con la vegetazione disseccata della fabbrica di mattoni che una volta vi sorgeva. Nessuno pensa mai di passeggiare in quei luoghi di desolazione, o di trarne qualche profitto. Vi si possono buttare un po' di panieri sfondati, una mezza dozzina di bottiglie rotte e simili altri frammenti, quando un pigionale ne piglia possesso il primo giorno, e là rimane ogni cosa fino a un nuovo trasloco; giacchè la paglia umida si prende quel tempo che le accomoda per infracidare e mischiarsi con quel po' di bosso, coi sempregialli che dovrebbero esser sempreverdi e coi cocci dei vasi di fiori sparsi lugubremente in giro, preda della fuliggine e del sudiciume.

In un luogo di questa sorta il signor Rodolfo Nickleby guardava fuori dalla finestra, standosene con le mani in tasca. Aveva fissato gli occhi su un alberello contorto d'abete, piantato da qualche pigionale precedente in un tino che una volta era stato verde e ch'era rimasto lì da anni, a infracidare a pezzo a pezzo. Nell'oggetto non v'era nulla di molto attraente, ma il signor Nickleby era assorto in una grave meditazione e lo contemplava con una attenzione che, in uno stato di maggiore consapevolezza, non si sarebbe degnato di dare alla pianta più rara. Infine, gli occhi si volsero a un sudicio finestrino a sinistra, a traverso il quale appariva vagamente la faccia dell'impiegato, il quale levando per caso lo sguardo vide che il padrone gli faceva cenno di andare.

Ubbidendo all'appello, l'impiegato scattò dall'alta scranna (alla quale aveva comunicato un lucido straordinario con l'alzarsene e sedervisi innumerevoli volte) e si presentò nella stanza del signor Nickleby. L'impiegato era alto e d'età media, con gli occhi a fior di testa, dei quali uno era immobile, il naso rubicondo, il viso cadaverico, il vestito logorato dal troppo uso, stremenzito che faceva pietà, e una così scarsa dotazione di bottoni ch'era meraviglioso come egli riuscisse a tenerselo addosso.

– Sono le dodici e mezzo, Noggs? – chiese il signor Nickleby, con una voce acuta e stridente.

– Non più di venticinque minuti all'… – Noggs stava per aggiungere all'orologio della birreria, ma riprendendosi, sostituì: – del tempo normale.

– Il mio orologio s'è fermato, – disse il signor Nickleby. – Veramente non so perché.

– Non è stato caricato, – disse Noggs.

– Sì, che è stato caricato, – disse il signor Nickleby.

– Allora, è finita la corda, – soggiunse Noggs.

– Questo non può essere, – osservò il signor Nickleby.

– È così, – disse Noggs.

– Bene, – disse il signor Nickleby, rimettendosi l'orologio a ripetizione in tasca, – sarà così.

Noggs diede un grugnito secondo la sua abitudine alla fine d'ogni disputa col padrone, come un segno del proprio trionfo; e, (giacchè raramente parlava se non gli si rivolgeva la parola), cadde in un cruccioso silenzio, mentre si stropicciava le mani l'una intorno all'altra e faceva schioccare le giunture delle dita, che contorceva in tutte le possibili direzioni. La continua pratica di questa abitudine in ogni occasione e la comunicazione d'uno sguardo rigido e fisso all'occhio che aveva ancora sano, così da farlo rassomigliare perfettamente all'altro e da rendere impossibile a chiunque di determinare dove o a che cosa guardasse, erano due fra le particolarità innumerevoli del signor Noggs, che sorprendevano al primo incontro un osservatore inesperto.

– Stamane io vado alla Taverna di Londra – disse il signor Nickleby.

– A un'assemblea pubblica? – chiese Noggs.

Il signor Nickleby accennò di sì. – Aspetto una lettera dall'avvocato sull'ipoteca di Ruddle. Se arriva, sarà qui con la distribuzione delle due. Lascerò il centro proprio a quell'ora e mi dirigerò a Charing-Cross seguendo la sinistra; se vi sono delle lettere, vienimi incontro, e portamele.

Noggs accennò di sì, e mentre accennava di sì, squillò il campanello dell'ufficio. Il padrone levò il viso dalle carte, e l'impiegato rimase calmo in atteggiamento stabile.

– Il campanello, – disse Noggs, come per spiegare. – Siete a casa?

– Sì.

– Per tutti?

– Sì.

– Anche per il messo dell'esattore?

– No! Che venga un'altra volta.

Noggs cacciò il suo grugnito, come per dire "Lo sapevo!", e, sentendo ripetere lo squillo, corse alla porta, donde ritornò subito annunciando, col nome di signor Bonney, un signore impaziente e frettoloso, il quale con la chioma irta e scarmigliata intorno a tutta la testa e al collo una piccola cravatta bianca non bene annodata, aveva l'aspetto d'essersi levato all'improvviso la notte e da quel momento di non essere più ritornato a letto.

– Mio caro Nickleby, – disse quel signore, cavandosi il cappello bianco così pieno di carte che a stento gli si reggeva sul cranio, – non c'è un momento da perdere; ho una vettura alla porta.