In questo gruppo di racconti, ordinati per il resto in ordine cronologico, s’è dato il posto d’onore a Le Horla non soltanto per la lunghezza inconsueta della narrazione, ma anche perché nella sua seconda versione – qui riportata – risulta essere una sorta di “summa” di altri tre racconti (e cioè la prima stesura di Le Horla del 1886, La lettre d’un fou dell’anno precedente, Lui del 1883). Si tratta di veri e propri “cartoni”

preparatorii del quadro definitivo.

Le Horla è senza dubbio uno dei testi fondamentali della narrazione dedicata all’orrore, «opera unica nel suo genere, d’una tragicità assoluta: l’autore vi ha condensato un sentimento di angoscia sino ad allora sconosciuto in tutte le letterature moderne»4.

Si direbbe che qui lo scrittore è riuscito a realizzare compiutamente quel che aveva attribuito, forse con eccessiva generosità, a Turgenev, di cui era appassionato ammiratore. In un suo articolo che ha per titolo Le Fantastique 5 si può leggere: «Lo scrittore racconta quel che ha provato e soprattutto come l’ha provato, lasciando percepire il turbamento profondo del suo animo, l’angoscia di trovarsi di fronte a ciò che non può comprendere e quella sensazione straziante d’un orrore che avviene davanti a noi e svanisce come un soffio sinora sconosciuto che ci arriva da chissà quale mondo».

L’intensità, la progressione drammatica e persino le residue preoccupazioni naturalistiche di verosimiglianza sono esemplari in questo lungo racconto. I momenti di pausa nella nevrosi (o della psicosi) qui descritta sono tutti necessari: danno al narratore (e al lettore) quel barlume illusorio di speranza indispensabile per comprendere che il “giro di vite” immaginato da Maupassant ha spirali sempre più strette che riconducono immancabilmente il protagonista alla casa maledetta. Ma anche qui, come del resto in tutta l’opera dello scrittore, la speranza è soltanto una trappola, un atroce inganno dell’immaginazione.

Il rimprovero avanzato da André Fermigier, secondo il quale in molti racconti maupassantiani e particolarmente in Le Horla l’anormale abbia usurpato il posto del soprannaturale (così come le isteriche della Salpêtrière avrebbero rimpiazzato le streghe dei tempi precedenti)6 mi sembra fuori luogo: qui la presenza dell’Invisibile, dello sconosciuto «dietro la porta, dietro la vita apparente» è evocata esattamente con 4 M. Esch, En rélisant Maupassant, Lausanne 1921, p. 79.

5 Su Le Gaulois, 7 ottobre 1883.

6 A. Fermigier, «Préface» à Le Horla, Gallimard, Paris 1986, p. 8.

quell’aura di vergognoso terrore, che abbiamo veduto essere la caratteristica precipua di questo genere letterario.

Molti critici si sono posti la domanda se l’impegno dello scrittore nella stesura del testo definitivo di Le Horla – ai tre racconti preparatorii poco prima citati occorre aggiungere anche episodi di Suicides, di Promenade, di Qui sait? – sia o meno la prova che in realtà egli racconti la storia delle proprie angosce nel tentativo di esorcizzarle. Una conoscenza, anche superficiale, della vita di Maupassant è sufficiente a farci rispondere affermativamente al quesito. Detto questo, mi sembra abbia un’importanza davvero secondaria l’altra “querelle” su cui tanto s’è scritto: se cioè l’autore di Le Horla abbia operato sotto l’urgenza d’uno stato psicotico o pre-psicotico oppure no. Le testimonianze al riguardo sono tanto numerose quanto contraddittorie7 ma rimangono del tutto ininfluenti per una valutazione critica.

Di ben maggior interesse l’identificazione a livello inconscio dello Horla, del persecutore, nella figura materna, proposta da Antonia Fonyi con una ineccepibile analisi di tutto il corpus delle novelle maupassantiane: la madre offre al figlio soltanto una vita apparente, promettendogli subito la morte (le tare ereditarie, in questo caso), la madre lascia uscir da sé il figlio-prigioniero soltanto per riprenderselo a breve tempo, una madre Inafferrabile, Invisibile, Misteriosa, «l’immagine eternamente viva d’una madre ridotta a gigantesco utero, come la Natura, la grande procreatrice…

immensa come la Venere di Siracusa»8. («È il simbolo della carne… non ha testa, non ha volto. Che importa, il simbolo ne acquista completezza (…) Schopenhauer ha detto che la natura, nell’intento di perpetuare la specie, ha fatto diventare l’atto della riproduzione un tranello. Questa forma di marmo che ho veduto a Siracusa, è il tranello in cui cade ogni uomo: è la donna che nasconde e mostra nello stesso tempo il mistero della vita.»9) Le Horla potrebbe essere dunque il vano tentativo di resistere all’ineluttabile schiavitù/claustrazione di cui l’angoscia è il sintomo primario. E se già Savinio aveva accennato all’amore «totalitario», «più che materno» che legava Laure a Guy Maupassant (e davvero alcune lettere loro sembrano quelle di due compagni d’arme con tutte quelle discussioni sui bordelli e le rotondità femminili), un’altra inquietante identificazione, almeno a livello inconscio, potrebbe essere avanzata, oggi che l’omosessualità, così abilmente nascosta, di Flaubert è assolutamente certa. Allontanatosi dalla madre carnale in cui poteva identificarsi il predominio della madre primitiva, Maupassant si sceglie per altri tredici anni una madre putativa, una madre, più che un padre, a cui «confidare tutto», una madre «da amare ardentemente» (e non nacque forse la leggenda che Guy fosse un figlio naturale di Gustave?), una madre che continua a chiamarlo – come l’altra, la vera –

«Mon petit», «Mon bonhomme», «Mon petit taureau triste», una madre sin troppo attenta allo sbocciare d’un immenso talento naturale, una madre che sorveglia perfino le troppo frequenti prestazioni sessuali10. Le Horla ha inizio lo stesso giorno della 7 Si vedano in Souvenir sur M. i precisi ricordi del cameriere Tassart e nel libro di Pierre Borel le testimonianze dell’amico Robert Pinchon e del dottor Pillet.

8 A. Fonyi, «Introduction» à Le Horla, Flammarion, Paris 1984, p.