Non potei fare a meno di pensare che fossero malvage: montagne della follia il cui opposto versante si affacciasse su un maledetto, definitivo abisso. Lo sfondo palpitante e semiluminoso conteneva ineffabili suggestioni di un vago ed etereo altrove molto più vicino allo spazio che alla terra, e ci ricordava in modo inquietante l’assoluta lontananza, desolazione e morte di quel mondo australe mai visitato prima dall’uomo, incommensurabile.
Fu il giovane Danforth ad attirare la nostra attenzione sugli oggetti sorprendentemente regolari che caratterizzavano il profilo delle montagne: frammenti di cubi perfetti, come quelli menzionati da Lake nei suoi dispacci, che giustificavano il paragone con le rovine degli antichissimi templi dipinti da Roerich, con sottile magia, sulle vette di misteriose montagne dell’Asia. Sul continente ultraterreno aleggiava un incantesimo alla Roerich: ne avevo avuto un’avvisaglia in ottobre quando avevo visto per la prima volta la Terra di Victoria e adesso ne avevo la conferma. Poi fui assalito da un’altra sgradevole associazione con i miti più antichi: quel regno della morte somigliava in modo inquietante all’infame altipiano di Leng citato negli scritti delle origini. Alcuni studiosi di mitologia collocano l’altipiano di Leng nell’Asia centrale, ma la memoria razziale dell’uomo - o dei suoi predecessori - è lunga, e può darsi che certi racconti abbiano avuto origine in terre, montagne e santuari dell’orrore più antichi dell’Asia o di qualunque ambiente umano conosciuto. Alcuni studiosi dell’occulto avanzano l’ipotesi che l’origine dei frammentari Manoscritti pnakotici risalga a prima del Pleistocene e che gli adoratori di Tsathoggua non fossero umani, come del resto Tsathoggua stesso. Qualunque fosse il segmento di spazio e tempo occupato da Leng, era una regione alla quale non intendevo avvicinarmi e che non avrei voluto visitare; per la stessa ragione non mi piaceva trovarmi nel mondo che aveva generato mostri ambigui e primitivi come quelli descritti da Lake. In un simile momento mi pentii di aver letto l’aborrito Necronomicon e di aver parlato a lungo con Wilmarth, l’esperto di folklore così sgradevolmente erudito della nostra università.
Questo stato d’animo indubbiamente aggravò la mia reazione al bizzarro miraggio che ci apparve nel cielo opalescente, mentre ci avvicinavamo alle montagne e cominciavamo a distinguere le ondulazioni delle cime più basse. Nelle settimane precedenti avevo assistito a decine di miraggi polari, alcuni altrettanto vividi e fantastici di quello attuale, ma in esso c’era un’oscura minaccia, un simbolismo che mi diede i brividi; e intanto dagli inquieti vapori di ghiaccio sulle nostre teste prendeva vita un labirinto pullulante di mura favolose, torri e minareti.
L’effetto era quello di una città colossale la cui architettura sembrava del tutto sconosciuta all’uomo e alla sua immaginazione: giganteschi aggregati di mattoni neri come la notte sviluppavano mostruose perversioni delle leggi geometriche, modellandosi nei più grotteschi estremi del macabro e del bizzarro. Coni tronchi, a volte intagliati a terrazze e a volte scanalati, erano sormontati da alte strutture cilindriche che presentavano qua e là svasature di forma quasi sferica e culminavano in strati di sottili dischi dentellati; strane costruzioni sporgenti e simili a tavole suggerivano cumuli di piani rettangolari, di piatti circolari o stelle a cinque punte che combaciavano perfettamente. C’erano coni e piramidi compositi, a volte isolati e a volte posti in cima a cubi, cilindri, coni e piramidi tronchi, più piatti; ogni tanto si vedevano guglie aghiformi, sempre in gruppi di cinque. Queste strutture pazzesche erano collegate da ponti tubolari che andavano dall’una all’altra ad altezze vertiginose, e la scala dell’insieme era così gigantesca da risultare oppressiva e terrificante. Il miraggio non era diverso dalle visioni più fantastiche osservate e disegnate dal baleniere artico Scoresby nel 1820; ma a quell’ora e in quel luogo, con le vette oscure delle montagne sconosciute che incombevano nel cielo, con la scoperta di un mondo inaudito che occupava la nostra mente e il timore che la maggior parte della spedizione fosse andata incontro al disastro, tutto contribuì a fare in modo che l’apparizione ci sembrasse impregnata di malvagità, un autentico portento del male.
Quando il miraggio cominciò a dissolversi fui contento anche se durante questa fase torri e coni d’incubo assunsero forme distorte e ancora più orribili. Mentre l’illusione scompariva in un turbine opalescente noi cominciammo di nuovo a guardare la terra e ci rendemmo conto che non mancava molto alla fine del viaggio. Le montagne sconosciute svettavano nel cielo ad altezze vertiginose, come bastioni eretti da giganti, e i bizzarri cubi che le coronavano erano visibili con eccezionale nitidezza, anche senza binocolo. Ci trovavamo sulle colline ai piedi della catena principale, e attraverso la neve, il ghiaccio e le chiazze nude dell’altipiano cominciammo a notare i puntini neri che segnalavano l’accampamento di Lake e gli scavi da lui effettuati. Altre colline, più alte, si innalzavano a una distanza di otto-nove chilometri dalle prime e formavano quasi una catena a parte rispetto alla colossale barriera alle loro spalle. Alla fine Ropes - lo studente che aveva sostituito McTighe ai comandi - cominciò ad abbassarsi verso la macchia scura alla nostra sinistra che, per grandezza, doveva essere il campo. Nel frattempo McTighe inviò l’ultimo messaggio telegrafico non censurato che il mondo avrebbe ricevuto dalla nostra spedizione.
Tutti, ovviamente, hanno letto i brevi e insoddisfacenti bollettini emessi nell’ultima parte del nostro soggiorno antartico. Qualche ora dopo l’atterraggio inviammo un rapporto parziale sulla tragedia di cui eravamo testimoni e annunciammo a malincuore che Lake e tutti gli uomini che si trovavano con lui erano stati uccisi dalla spaventosa tempesta di vento del giorno o della notte prima. I morti accertati erano undici, perché mancava il giovane Gedney. E mondo accettò, quella sommaria esposizione attribuendola allo shock della tragedia; inoltre, quando affermammo che la bufera aveva dilaniato i cadaveri rendendone impossibile il trasporto nessuno dubitò delle nostre parole. In realtà, pur in preda al dolore, alla sorpresa e all’orrore che ci tormentava l’anima non ci allontanammo molto dalla verità, e di questo vado ancora orgoglioso. L’aspetto terribile della faccenda sta in quello che non rivelammo affatto, e che nemmeno ora rivelerei se non fosse per mettere in guardia altri uomini da terrori senza nome.
È vero che il vento aveva messo a soqquadro l’accampamento: è improbabile che gli uomini sarebbero sopravvissuti alla tempesta, anche senza l’altra cosa. La bufera, accompagnata dal volo impazzito di migliaia di schegge di ghiaccio, doveva aver raggiunto una violenza senza precedenti.
Il rifugio di uno degli aerei era quasi polverizzato, ma anche gli altri si trovavano in condizioni precarie e inadeguate. La torre di trivellazione che sorgeva sullo scavo, a una certa distanza dall’accampamento, era a pezzi.
Le parti metalliche ed esposte di aerei e scavatrici sembravano tirate a lucido, e due delle tende più piccole si erano piegate nonostante i rinforzi di neve. Le superfici di legno esposte alla bufera erano scrostate e prive di vernice, e qualsiasi impronta nella neve era scomparsa. Inoltre, nessuno degli esemplari biologici scoperti da Lake era integro. Raccogliemmo una serie di minerali da un gran mucchio dove si trovavano alla rinfusa, e fra questi i frammenti di steatite a forma di stella con i misteriosi puntini raggruppati secondo modelli regolari che avevano causato tante ipotesi arbitrarie. Quindi mettemmo da parte alcune ossa fossili, fra cui le più tipiche degli esemplari danneggiati.
Nessuno dei cani era sopravvissuto e il recinto costruito nella neve vicino al campo era quasi completamente distrutto.
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