Doveva essere opera del vento, anche se i danni maggiori si osservavano sul lato prospiciente l’accampamento, che non era quello da cui aveva soffiato la bufera: questo particolare fa pensare che gli animali avessero tentato di fuggire, terrorizzati, in quella direzione. Le tre slitte erano scomparse, e abbiamo tentato di spiegare che forse il vento le ha fatte volare chissà dove. La scavatrice e l’apparecchio per la fusione del ghiaccio erano irrimediabilmente danneggiati e non valeva la pena portarli con noi, quindi li usammo per bloccare l’inquietante soglia che Lake aveva aperto sul passato. Lasciammo all’accampamento i due aerei più malridotti, anche perché ormai potevamo contare solo su quattro piloti: Sherman, Danforth, McTighe e Ropes. Danforth, per giunta, era in pessime condizioni nervose e per il momento non poteva volare. Portammo con noi tutti i libri, le attrezzature scientifiche e altri oggetti che riuscimmo a salvare, ma la maggior parte dei beni erano scomparsi senza lasciare traccia. Tende e pellicce in soprannumero mancavano o erano in cattive condizioni.
Verso le quattro del pomeriggio, dopo che un ampio volo di ricognizione ci costrinse a dare Gedney per perduto, inviammo all’ Arkham il nostro messaggio censurato, in modo che lo diffondesse nel mondo. Penso che adottare un tono calmo e neutro fosse una saggia decisione, almeno per quanto le circostanze permettevano, e l’unico accenno d’inquietudine che lasciammo trapelare riguardava i nostri cani, il cui nervosismo in prossimità degli esemplari biologici era già stato segnalato da Lake. Non mi pare che parlassimo dell’irrequietezza da cui gli animali furono presi quando annusarono le strane formazioni di steatite verde o altri oggetti dell’accampamento distrutto: apparecchi scientifici, aerei, macchinari che si trovavano al campo o presso gli scavi e le cui parti erano state rimosse, smontate e danneggiate da venti che parevano animati da una singolare curiosità e intelligenza.
Sui quattordici esemplari biologici mantenemmo, penso comprensibilmente, un maggiore riserbo. Riferimmo che ne avevamo trovato solo una parte e in condizioni gravemente danneggiate, ma aggiungemmo che le parti rimaste confermavano le accurate descrizioni di Lake. Fu arduo tener fuori le nostre emozioni dai rapporti ufficiali, non accennare al numero esatto degli esemplari né al modo in cui li avevamo trovati. Ci eravamo tacitamente accordati di non trasmettere nessuna notizia che potesse far pensare a un’eventuale follia di Lake o dei suoi uomini: e il fatto che sei di quelle imperfette mostruosità fossero sepolte, in posizione eretta, dentro fosse profonde circa tre metri, sovrastate da tumuli a cinque punte attraversati da piccoli buchi che riproducevano la disposizione dei puntini trovati sulla steatite del Mesozoico o del Terziario, era semplice follia. Quanto agli otto esemplari integri di cui Lake ci aveva parlato, sembravano essersi dissolti nel nulla.
La pace mentale dell’opinione pubblica ci stava particolarmente a cuore, per cui né Danforth né io accennammo allo spaventoso volo sulle montagne del giorno seguente. A limitare misericordiosamente il numero dell’equipaggio, composto soltanto da noi due, fu il fatto che solo un apparecchio alleggerito al massimo poteva levarsi a quell’altezza straordinaria. Al nostro ritorno, verso l’una del pomeriggio, Danforth era prossimo a una crisi isterica ma riuscì a controllarsi. Non fu necessaria la persuasione per convincerlo a promettermi di non mostrare i disegni che avevamo effettuato dall’alto e gli oggetti che avevamo in tasca, e di non rivelare ai compagni più di quanto avessimo già deciso di far trapelare al mondo esterno; inoltre, decidemmo di nascondere le pellicole fotografiche e svilupparle soltanto in seguito. Una parte del mio racconto, dunque, giungerà nuovo alle orecchie di Pabodie, McTighe, Ropes, Sherman e gli altri della spedizione non meno che a quelle del mondo. Devo confessare che Danforth è anche più coraggioso, perché vide - o credette di vedere qualcosa che non è disposto a rivelare neppure a me.
Come tutti sanno, il nostro rapporto comincia con una descrizione della formidabile ascesa e la conferma della teoria di Lake secondo cui le immense montagne risalgono all’Archeano e sono composte di ardesia e altri antichissimi strati rimasti immutati almeno fino al medio Comanciano; prosegue con una serie di osservazioni piuttosto convenzionali sulla regolarità dei cubi laterali e delle formazioni tipo-bastione che coronano le vette; conclude che le bocche di caverna indicano vene calcaree dissolte e avanza l’ipotesi che alcune pareti o passi della catena possano essere scalati, e valicati, da esperti alpinisti. Il rapporto si chiude con l’osservazione che il versante opposto delle montagne, fin qui misterioso, si apre su un immenso super-altipiano, vecchio e immutabile come le montagne stesse, situato a una quota di circa 7.000 metri e caratterizzato da grottesche formazioni rocciose che sporgono da un sottile strato di ghiaccio, nonché da una serie di elevazioni più modeste che si trovano fra la superficie dell’altipiano e i precipizi delle vette maggiori.
In sé queste informazioni non contengono nessun dato erroneo e soddisfecero i nostri compagni all’accampamento. Attribuimmo la nostra assenza di sedici ore (un periodo più lungo di quello richiesto dal programma di volo, atterraggio, esplorazione e raccolta di esemplari geologici) alle incredibili avversità del vento, e raccontammo con esattezza il nostro atterraggio sulle cime più basse del versante opposto. Per fortuna il racconto suonò abbastanza realistico e prosaico da non indurre nessuno degli altri a imitare la nostra impresa, ma se avessero osato avrei adoperato tutta la mia forza di convinzione per dissuaderli. Durante la nostra assenza Pabodie, Sherman, Ropes, McTighe e Williamson avevano lavorato come muli sui due aerei di Lake rimasti in condizioni migliori ed erano riusciti a rimetterli in sesto, nonostante il disordine assolutamente incomprensibile in cui avevano trovato le parti meccaniche.
Decidemmo di caricare i quattro aerei il mattino seguente e tornare alla vecchia base appena possibile. Anche se indiretta, era la via più sicura per arrivare allo stretto di McMurdo, perché un volo senza scalo attraverso le distese sconosciute di quel continente morto da millenni avrebbe presentato non pochi pericoli. Non era concepibile effettuare altre esplorazioni dopo la decimazione dei nostri uomini e la distruzione delle scavatrici; inoltre, i dubbi e gli orrori da cui ci sentivamo avviluppati - e che non avevamo rivelato al resto del mondo - ci facevano desiderare di fuggire al più presto da quel regno australe di desolazione e cupa follia.
Come il pubblico sa, il nostro ritorno avvenne senza ulteriori drammi.
Gli aerei raggiunsero la vecchia base la sera del giorno seguente (27 gennaio) dopo un volo veloce e senza soste; il 28 raggiungemmo lo stretto di McMurdo in due tappe, costretti a una breve sosta da un’avaria al timone di un aereo dovuta al vento furioso che si scatenò sulla distesa di ghiaccio dopo che avemmo abbandonato il grande altipiano. Nel giro di altri cinque giorni l’ Arkham e la Miskatonic, con tutti gli uomini e le attrezzature a bordo, si allontanavano dagli spessi banchi di ghiaccio e traversavano il Mare di Ross, con i monti beffardi della Terra di Victoria che svettavano a ovest contro un fosco cielo antartico e il gemito del vento che ricordava un suono di flauti dalle mille sfumature, una cosa assolutamente agghiacciante. Meno di due settimane dopo ci lasciammo alle spalle l’ultimo lembo di terra polare e ringraziammo il cielo di esserci salvati da quel mondo inquietante e maledetto dove vita e morte, spazio e tempo hanno stretto un’oscura e blasfema alleanza fin dall’epoca ignota in cui la materia ha cominciato a strisciare, e a nuotare, sulla superficie appena raffreddata del pianeta.
Dopo il nostro ritorno abbiamo fatto di tutto per scoraggiare l’esplorazione antartica e abbiamo tenuto per noi i dubbi e le ipotesi peggiori, con grande senso di unità e fedeltà alle promesse che ci eravamo fatti. Persino il giovane Danforth, che ha avuto un esaurimento nervoso, non si è lasciato sfuggire con i medici la minima allusione o confidenza: eppure, come ho detto, c’è qualcosa che pensa di aver visto soltanto lui e che non è disposto a rivelarmi, nonostante la liberazione che proverebbe a parlarne.
Quel particolare potrebbe spiegare molte cose e renderle più comprensibili, anche se forse è stata soltanto un’illusione provocata dallo shock precedente. Questa è l’opinione che mi sono fatta nei rari momenti in cui Danforth si è lasciato sfuggire in mia presenza qualche frase sconnessa e senza senso: cose che immediatamente ripudia quando riacquista il controllo di sé.
Sarà dura convincere l’umanità a lasciar perdere le vaste e bianche distese del sud: anzi, una parte dei nostri sforzi potrebbe ottenere l’effetto contrario, attirando l’attenzione dei curiosi. Avremmo dovuto sapere fin dall’inizio che la curiosità dell’uomo è imbattibile e che i risultati della nostra spedizione avrebbero convinto altri a gettarsi nell’eterna ricerca dell’ignoto. Le mostruosità biologiche di cui ha parlato Lake hanno acceso l’interesse di naturalisti e paleontologi, portandolo all’estremo; per fortuna non abbiamo mostrato le parti staccate dagli esemplari sepolti e le fotografie scattate al momento del ritrovamento, e ci siamo astenuti dal far vedere le misteriose ossa intaccate o le steatiti verdastre.
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