Seppellimmo i resti umani accanto a quelli degli altri dieci uomini e quelli del cane con i suoi trentacinque compagni. Le curiose macchie sul tavolo del laboratorio e il mucchio di libri illustrati che trovammo nei pressi, e che qualcuno aveva maneggiato con estrema incuranza, ci lasciarono quanto mai perplessi.
E questo è il peggio dell’orrore che trovammo all’accampamento, ma altri particolari non erano meno sconcertanti. La totale scomparsa di Gedney e di un cane, degli otto esemplari biologici intatti, tre slitte, alcune apparecchiature, libri illustrati di argomento tecnico e scientifico, materiale per scrivere, torce elettriche e batterie, cibo, carburante, apparecchi per riscaldamento, alcune tende, pellicce e così via andava al di là di qualsiasi congettura ragionevole. Lo stesso vale per le macchie d’inchiostro che trovammo su alcuni fogli di carta e le tracce di misteriose manomissioni intorno agli aerei o altre apparecchiature, al campo e nei pressi degli scavi, come se qualcuno avesse cercato di usarle. I cani nutrivano un’avversione assoluta per le apparecchiature manomesse, la dispensa era a soqquadro e certi generi erano spariti; i barattoli di cibo in scatola erano ammucchiati in modo quasi comico e aperti nei posti più impensati, in maniera assurda.
La profusione di fiammiferi sparsi dappertutto, intatti, consumati o, semplicemente spezzati costituiva un altro piccolo enigma, come un paio di tende e di pellicce che trovammo nei paraggi, lacerate in modo assurdo per adattarsi a un uso inconcepibile. Il maltrattamento dei corpi umani e animali e la pazzesca sepoltura degli antichissimi esemplari completavano il quadro di assoluta follia. In vista di un’eventualità come quella attuale fotografammo le principali testimonianze della distruzione del campo: useremo le foto per corroborare la nostra richiesta che la spedizione Starkweather-Moore non parta affatto.
Dopo aver trovato i cadaveri nel rifugio, il nostro primo gesto fu di aprire e fotografare la pazzesca fila di tombe sormontate dai tumuli a cinque punte. Ovviamente notammo la somiglianza fra i tumuli dai fori misteriosi e le steatiti descritte dal povero Lake, e quando ci imbattemmo nel mucchio di minerali e potemmo fare il confronto da soli, osservammo che la somiglianza era estremamente accentuata. La formazione ricordava in modo orribile la testa a stella delle antichissime creature, e ci trovammo d’accordo nell’ipotizzare che questo fatto doveva aver scosso non poco i nervi degli uomini di Lake, già stanchi e provati. La scoperta delle creature sepolte fu una cosa orribile, e Pabodie e io riandammo con l’immaginazione ai terribili miti primitivi di cui avevamo letto o sentito parlare. La vista delle creature e la loro vicinanza, unita all’opprimente solitudine e al terribile vento che soffiava dalle montagne, dovevano essersi uniti nello spingere il gruppo verso la follia.
Perché la follia - di cui Gedney sembrava l’unico possibile agente e superstite - fu la spiegazione immediata adottata da tutti, almeno a livello verbale; ma non sarò così ingenuo da negare che ognuno di noi avesse le teorie più stravaganti, e che solo il rispetto della ragione ci impedisse di formularle completamente. Nel pomeriggio Sherman, Pabodie e McTighe fecero un volo di ricognizione nella zona adiacente, perlustrando l’orizzonte col binocolo in cerca di Gedney e degli oggetti scomparsi, ma non trovarono nulla. Il gruppo riferì che la titanica catena di montagne si estendeva a destra e a sinistra a perdita d’occhio, senza diminuire in altezza o modificarsi nella struttura generale. Su alcune montagne tuttavia, le formazioni cubiche a bastioni si distinguevano meglio e sembravano intatte: indubbiamente somigliavano alle rovine dipinte da Roerich sulle cime dell’Asia. Per quanto si poteva osservare, la distribuzione delle misteriose caverne vicino alle vette scure e senza neve era regolare.
Nonostante gli orrori che avevamo trovato al campo, ci era rimasto sufficiente zelo scientifico e senso dell’avventura per domandarci quale regno sconosciuto si trovasse sull’altro versante delle montagne. Come riferito dai nostri prudenti bollettini, a mezzanotte andammo a riposare dopo una giornata di terrori ed enigmi senza risposta; tuttavia avevamo abbozzato un piano per uno o più voli ad alta quota in un aereo alleggerito al massimo e munito di macchine fotografiche più le attrezzature geologiche. La partenza sarebbe avvenuta il mattino successivo. Fu deciso che Danforth e io avremmo costituito il primo gruppo d’esplorazione, e alle sette ci svegliammo per cominciare il viaggio di buon’ora. Tuttavia i forti venti che soffiavano sulla regione, e di cui parlammo nei messaggi inviati al mondo esterno, ritardarono la nostra partenza fino alle nove.
Ho già accennato ad fatto che, sedici ore dopo, Danforth e io facemmo agli uomini dell’accampamento un racconto espurgato, poi trasmesso all’esterno via radio: ora ho il terribile compito di espanderlo, riempiendo i vuoti pietosi di allora con alcuni accenni a ciò che effettivamente vedemmo nel mondo nascosto al di là delle montagne, e alle scoperte che hanno portato Danforth al collasso nervoso. Vorrei che il mio compagno ci parlasse francamente della cosa che ritiene di aver visto da solo (anche se, probabilmente, fu un inganno dei nervi scossi) e che lo ha condotto al punto in cui si trova ora. Purtroppo è fermamente intenzionato a non farlo e io dovrò limitarmi a riferire le frasi sconnesse che bisbigliò in seguito, ricordando ciò che lo aveva spinto a urlare con tutte le sue forze mentre l’aereo virava sul passo di montagna, dopo il concreto e tangibile spavento che avevo condiviso con lui. Saranno queste le mie ultime parole: e se le prove della sopravvivenza di orrori primigeni non basteranno a trattenere altri dal turbare il silenzio dell’Antartide - o almeno dal sondare troppo profondamente ciò che si nasconde sotto la superficie di quell’estremo deserto di segreti proibiti e inumani, quella terra di maledette solitudini - la responsabilità delle catastrofi che seguiranno, inconcepibili e incommensurabili, non sarà mia.
Danforth e io studiammo gli appunti presi da Pabodie nel volo del pomeriggio e facemmo alcuni calcoli con il sestante: in questo modo scoprimmo che il passo più abbordabile si trovava alla nostra destra, era visibile dal campo ed era situato a oltre settemila metri sul livello del mare. Fu la prima meta del nostro viaggio di scoperta, e in quella direzione puntammo l’aereo alleggerito. Il campo, situato in mezzo a una serie di elevazioni più modeste che svettavano da un alto tavoliere continentale, si trovava a oltre tremilacinquecento metri: l’ascesa, dunque, non sarebbe stata troppo drastica. Nonostante questo ci rendemmo conto che l’aria si rarefaceva e il freddo diventava intensissimo, perché per ragioni di visibilità dovevamo lasciare aperti i finestrini. Indossavamo, ovviamente, le nostre pellicce più pesanti.
Man mano che ci avvicinavamo alle vette gigantesche, nere e sinistre sulla linea di neve screpolata e i ghiacciai che colmavano gli interstizi, notammo un numero sempre più grande di strane formazioni regolari aggrappate ai pendii. Pensammo ancora una volta agli straordinari paesaggi asiatici di Nicholas Roerich. Gli antichi strati rocciosi smussati dai venti rispondevano in pieno alle informazioni che ci aveva inviato Lake e dimostravano che quelle altissime montagne si erano innalzate in un’epoca remotissima della storia terrestre: forse più di cinquanta milioni di anni. Inutile domandarsi se fossero state ancora più alte, ma in quella regione straordinaria c’era qualcosa che faceva pensare a oscure influenze atmosferiche sfavorevoli ai cambiamenti e fatte apposta per ritardare i normali processi climatici di disgregazione dei minerali.
Ma ciò che ci affascinava di più era il groviglio di cubi geometrici, bastioni e imboccature di caverne che si aprivano sui fianchi delle montagne.
Li osservai con un binocolo e scattai una serie di fotografie aeree mentre Danforth pilotava; ogni tanto gli davo il cambio, ma le mie cognizioni di navigazione erano quelle di un dilettante. In ogni caso Danforth ne approfittava per usare il binocolo.
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