Ci rendemmo conto che i misteriosi bastioni erano costituiti per la maggior parte da una leggera e antichissima quarzite, diversa da qualunque formazione visibile sulla superficie generale della montagna, e che la loro forma era assolutamente geometrica: il povero Lake non ci aveva preparati a nulla di tanto straordinario.

Proprio come aveva detto, gli angoli erano smussati o sbriciolati da innumerevoli secoli di erosione atmosferica, ma la loro eccezionale solidità e la durezza del materiale li avevano salvati dall’estinzione. Alcune parti, specialmente quelle più vicine alla montagna, sembravano identiche alla superficie di roccia circostante, e l’insieme ricordava le rovine del Machu Picchu nelle Ande, o le antiche fondamenta di Kish portate alla luce nel 1929 dalla spedizione Oxford-Field Museum. Sia Danforth che io avemmo l’impressione che le pareti fossero costituite da blocchi ciclopici separati, proprio come era parso al compagno di volo di Lake, Carroll. La presenza di oggetti simili in un ambiente come quello andava al di là delle mie capacità d’immaginazione, e in quanto geologo mi sentii piuttosto mortificato. A volte le formazioni ignee hanno forme stranamente regolari, come la famosa Strada dei Giganti in Irlanda, ma nonostante le ipotesi di Lake su eventuali coni fumanti era evidente che la portentosa catena non aveva nulla di vulcanico.

Le strane caverne, nei pressi delle quali le misteriose formazioni sembravano più numerose, offrivano un altro e secondario enigma a causa dell’estrema regolarità delle imboccature. Spesso, proprio come ci aveva informato il bollettino di Lake, erano quadrate o semicircolari, come se le aperture originarie fossero state plasmate in modo simmetrico da una magica mano. Il loro numero e ampia distribuzione erano notevoli, e facevano pensare che tutta la regione fosse crivellata di gallerie ricavate negli strati di ardesia. Le occhiate che potemmo gettare non ci permettevano di sondare l’interno delle caverne, ma se non altro riuscimmo a stabilire che erano prive di stalattiti e stalagmiti. All’esterno, e in prossimità delle caverne, il fianco della montagna pareva invariabilmente liscio e regolare, e Danforth immaginò che le sottili spaccature e irregolarità causate dalle intemperie tendessero a formare modelli bizzarri. Saturo com’era degli orrori e misteri scoperti all’accampamento, accennò che le fessure ricordavano i bizzarri raggruppamenti di puntini sulle steatiti verdi, e duplicati in modo tanto orribile sui tumuli di neve che coprivano le tombe dei sei mostri.

Ci eravamo alzati gradualmente fino alle alture pedemontane maggiori e procedevamo lungo il passo relativamente basso che avevamo scelto. Di tanto in tanto guardavamo la neve e il ghiaccio sotto di noi, chiedendoci se un tragitto del genere sarebbe stato possibile con l’equipaggiamento meno sofisticato di epoche precedenti. Con nostra sorpresa ci accorgemmo che la superficie non era affatto impervia, per quanto possano non esserlo luoghi del genere, e nonostante i crepacci e alcuni punti insicuri non avrebbe frenato le slitte di uno Scott, uno Shackleton o un Amundsen. Alcune piste ghiacciate conducevano con insolita continuità verso i passi frustati dal vento, e quando raggiungemmo il nostro ci accorgemmo che la situazione era la stessa.

È difficile rendere per iscritto la sensazione di tensione e aspettativa che provammo nell’accingerci a superare la cresta e a gettare lo sguardo su quel mondo totalmente inesplorato, anche se non avevamo ragione di credere che la regione sull’altro versante fosse troppo diversa da quelle già viste o attraversate. L’idea che il baluardo di montagne e l’ammiccante distesa del cielo opalescente al di là di esse nascondessero un mistero o un maleficio era sottile e di per sé elusiva, non spiegabile a parole. Era questione di vaghi simbolismi psicologici, associazioni estetiche: qualcosa di inestricabilmente connesso con esotiche forme di poesia e pittura, con i miti arcaici celati nelle pagine di volumi temuti e sfuggiti. Persino la forza del vento suggeriva una vena di straordinaria e cosciente malignità, e per un attimo parve che il suo ululato fosse prodotto da un bizzarro insieme musicale, un acuto pigolio che risuonava a ogni raffica fra le onnipresenti imboccature delle grotte. La musica suggeriva un che di repulsivo, ma come le altre spiacevoli sensazioni era complessa e difficile da identificare.

Dopo un’ascesa graduale eravamo arrivati, secondo l’altimetro, alla quota di circa settemila metri; la parte innevata delle montagne era ormai alle nostre spalle e davanti a noi si innalzavano pareti nere e nude, oltre ai primi ghiacciai scanalati; ma i misteriosi cubi di pietra, i bastioni e le caverne risonanti aggiungevano al paesaggio un che di innaturale, di onirico e fantastico. Scrutando la fila di altissime cime credetti di identificare quella che aveva descritto il povero Lake, con uno dei bastioni esattamente sulla vetta. Sembrava perduto in una specie di bizzarra foschia antartica: la stessa, forse, che aveva indotto Lake a ipotizzare la presenza di zone vulcaniche. Il passo si trovava davanti a noi, liscio e frustato dal vento fra i pilastri che lo limitavano minacciosi e malevoli. Al di là il cielo era attraversato da vapori turbinanti e illuminato dal basso sole polare: il cielo del misterioso regno su cui nessun occhio umano si era mai posato.

Ancora pochi metri e l’avremmo visto. Danforth e io, che a causa del vento urlante e del rumore dei motori non potevamo parlare se non gridando, ci scambiavamo occhiate eloquenti. Poi, guadagnati i pochi metri che dovevamo ancora salire, guardammo al di là della gigantesca barriera e ci trovammo dinanzi ai segreti insondati d’una terra più antica e sconosciuta.

V


Ricordo che urlammo simultaneamente, in un misto di timore reverenziale, meraviglia, terrore e incredulità nei nostri sensi. Avevamo appena superato il passo e ci era apparso ciò che si trovava oltre. Per mantenere l’equilibrio delle nostre facoltà dovemmo ricorrere a spiegazioni naturali fabbricate sul momento: forse pensammo ai massi grotteschi e modellati dalle intemperie che si trovano nel Giardino degli Dei in Colorado, o alle rocce assurdamente simmetriche scolpite dal vento nel deserto dell’Arizona. Forse supponemmo che si trattasse d’un miraggio come quello che avevamo visto la mattina del giorno prima, avvicinandoci alle montagne della follia. Mentre gli occhi esploravano l’altipiano sconfinato e segnato dalle cicatrici delle intemperie, e poco a poco assorbivano la visione dell’interminabile labirinto di masse di pietra gigantesche, regolari e geometriche che innalzavano le loro guglie in rovina su una lastra, di ghiaccio non più spessa di quindici o venti metri nel punto più profondo, e altrove molto più sottile, sono sicuro che ci aggrappammo all’una o all’altra delle spiegazioni prosaiche cui ho accennato.

L’effetto della mostruosa visione fu indescrivibile, perché fin dall’inizio capimmo che ci trovavamo in presenza di una terribile violazione delle leggi naturali conosciute. Su un altipiano antichissimo e situato a un’altezza di circa settemila metri, in un clima mortale per qualunque essere vivente fin da tempi preumani e comunque da almeno mezzo milione di anni, si stendeva a perdita d’occhio un labirinto regolare di pietra che solo la disperazione dell’autodifesa mentale poteva attribuire al caso e non ad artefici intelligenti e consapevoli. Fino a quel momento, almeno al livello delle più serie considerazioni scientifiche, avevamo scartato qualsiasi teoria che attribuisse ai cubi e bastioni sparsi sulle montagne un’origine non-naturale. Come poteva essere altrimenti, quando all’epoca in cui i ghiacci avevano coperto il continente antartico e l’avevano trasformato in un regno di morte l’uomo non si era ancora differenziato dalle grandi scimmie?

Ma ora il senso della ragione pareva irrimediabilmente scosso, perché il ciclopico labirinto di blocchi squadrati, curvi o disposti ad angolo ci offriva un quadro in cui era impossibile cercare conforto o rifugio.