Dopo quasi cinquanta chilometri i grotteschi edifici di pietra cominciarono a diradarsi, e in capo ad altri quindici ci imbattemmo in una landa desolata senza traccia di artefatti. Il corso del fiume oltre la città era marcato da un’ampia linea depressa; la terra assumeva un carattere più accidentato, e nel perdersi fra le nebbie d’occidente pareva che salisse di nuovo.
Fino a quel momento non eravamo atterrati, ma abbandonare l’altipiano senza cercare di entrare in una delle mostruose strutture sarebbe stato impensabile. Decidemmo di trovare un tratto di terreno non accidentato nei pressi del passo che avevamo sorvolato, tra le alture minori al piedi della catena; una volta effettuato l’atterraggio, avremmo continuato con l’esplorazione a piedi. Anche se le alture che digradavano verso l’altipiano erano parzialmente coperte da rovine, individuammo un discreto numero di luoghi adatti alla discesa. Scegliemmo il più vicino al passo, in modo da poter tornare facilmente al campo al di là delle montagne, e verso le 12,30 pomeridiane riuscimmo ad abbassarci su una spianata di neve indurita, liscia e priva di ostacoli che in seguito ci avrebbe consentito un ottimo decollo.
Non ci parve necessario costruire un recinto di neve intorno all’aereo per un periodo così breve e in assenza di venti d’alta quota (un fatto che non smettevamo di apprezzare); quindi ci limitammo ad assicurarci che i pattini d’atterraggio fossero ben fissati e le parti vitali dell’apparecchio fossero protette dal freddo. Per il viaggio a piedi ci togliemmo le tute di pelliccia più pesanti e portammo con noi una piccola attrezzatura che consisteva di una bussola tascabile, una macchina fotografica manuale, poche provviste, alcuni voluminosi album e taccuini, martello da geologo e scalpello, sacchetti per i reperti, un rotolo di corda e potenti torce elettriche con batterie di riserva. Avevamo caricato tutto questo in previsione di un eventuale atterraggio e della necessità di scattare fotografie al suolo, fare disegni e schizzi topografici oppure staccare esemplari di roccia da una parete, uno sperone o una grotta di montagna. Per fortuna avevamo una scorta di carta straccia che mettemmo in un sacchetto e che avremmo adoperato come nel gioco dei cani e della lepre, segnando il cammino se ci fossimo addentrati in uno dei labirinti. L’avevamo portata con noi in previsione della necessità di esplorare un sistema di caverne dove l’aria fosse abbastanza tranquilla da consentire quel pratico sistema invece del più normale, che consiste nel disseminare sassolini.
Scendemmo il pendio, incamminandoci sulla neve compatta verso il meraviglioso labirinto di pietra che si stagliava contro il cielo opalescente dell’ovest, e provammo l’acuta sensazione di imminenti meraviglie che già avevamo sperimentato avvicinandoci al passo inviolato, quattro ore prima.
È vero, ormai ci eravamo familiarizzati con l’incredibile segreto nascosto dalla barriera di montagne, ma la prospettiva di entrare fra le mura primordiali erette da esseri intelligenti forse milioni di anni fa - prima che la razza umana fosse mai esistita - era qualcosa che incuteva timore, e la promessa di misteri su scala cosmica nascondeva tremende potenzialità. A quell’altezza la rarefazione dell’aria rendeva ogni sforzo più penoso, ma Danforth e io ci sentivamo bene e pronti ad affrontare qualsiasi compito ci si fosse presentato. In pochi passi arrivammo a una rovina informe e tanto consunta che si alzava appena sul livello della neve, mentre a sessanta o settanta metri di distanza sorgeva un grande edificio senza tetto, ma ancora completo nella gigantesca sagoma a cinque punte, che si innalzava in modo irregolare a un’altezza di tre o quattro metri. Ci dirigemmo verso quest’ultimo, e quando finalmente riuscimmo a sfiorare i blocchi ciclopici sentimmo di aver istituito un legame senza precedenti, quasi blasfemo, con età dimenticate e normalmente precluse alla nostra specie.
L’edificio a forma di stella e con un diametro di circa cento metri da una punta all’altra, era fatto di blocchi d’arenaria del Giurassico con una superficie media di due metri per tre. Una fila di minuscole finestre o feritoie, alte circa un metro e ottanta e larghe uno e quaranta, correva simmetricamente lungo le punte della stella in corrispondenza degli angoli interni, e si trovava a circa un metro e mezzo dal suolo gelato. Guardando attraverso le finestre ci rendemmo conto che i blocchi erano spessi almeno un metro e settanta, e che sulle pareti interne c’erano tracce di sculture o bassorilievi; l’avevamo già intuito sorvolando questo edificio e altri simili. Benché un tempo, probabilmente, fossero esistiti dei piani inferiori, le loro tracce erano state cancellate dallo spesso strato di ghiaccio e neve.
Ci introducemmo in una delle finestre, cercando invano di decifrare le decorazioni semicancellate alle pareti, ma non osammo affrontare il pavimento gelato. Durante il volo ci eravamo accorti che all’interno della città vera e propria esistevano edifici meno soffocati dal ghiaccio, e che entrando in uno di quelli ancora forniti del tetto avremmo trovato, forse, un interno intatto e quindi i piani inferiori. Prima di lasciare il rudere lo fotografammo accuratamente e ne studiammo, meravigliati, la gigantesca architettura che non faceva alcun uso della calce. Avremmo voluto che Pabodie fosse con noi, perché con la sua esperienza di ingegnere ci avrebbe spiegato come era stato possibile maneggiare i colossali blocchi di pietra nell’età lontanissima in cui la città e i suoi dintorni erano stati costruiti.
La discesa verso la città vera e propria - quasi un chilometro col vento che soffiava a tutta forza tra le vette più alte senza poterci raggiungere - rimarrà impresso nella mia mente fino ai più piccoli dettagli. Solo negl’incubi più fantastici l’uomo può osservare certi effetti ottici, ma Danforth e io costituivamo l’eccezione. Fra noi e i vapori turbinanti a occidente si stendeva un mostruoso groviglio di torri di pietra nera; le cui forme incredibili ci stupivano ogni volta che cambiava l’angolo visuale. Era un miraggio di pietra, e se non fosse per le fotografie dubiterei che possa esistere un luogo del genere. I materiali erano identici a quelli dell’edificio che avevamo lasciato, ma le forme stravaganti che assumevano nell’architettura urbana superano ogni descrizione.
Anche le fotografie rendono solo in parte l’idea della sua estrema bizzarria, interminabile varietà, quasi soprannaturale solidità, e dell’esotismo ultraterreno da cui era caratterizzata. C’erano forme geometriche a cui Euclide non sarebbe riuscito a trovare un nome: coni troncati in mille modi astrusi, irregolari in altri mille, terrazze sproporzionate in modo oltraggioso, fusti che offrivano improvvisamente svasature semisferiche, colonne spezzate e misteriosamente raggruppate, follie che ripetevano in modo assurdo il modello a cinque punte o a cinque scanalature. Avvicinandoci riuscimmo a vedere meglio sotto le parti trasparenti della lastra di ghiaccio, e individuammo i ponti tubolari di pietra che collegavano a varie altezze le strutture disposte in modo assurdo. Non sembravano esserci strade normali e l’unica apertura si trovava oltre un chilometro e mezzo sulla sinistra, indubbiamente dove il fiume aveva attraversato la città verso le montagne.
Usando il binocolo vedemmo che le fasce orizzontali di sculture semicancellate e i misteriosi gruppi di puntini erano più abbondanti, e cercammo di immaginare come la città doveva essersi presentata un tempo (anche se la maggior parte dei tetti e la sommità delle torri era andata distrutta).
Nel complesso doveva essere stata un dedalo di vicoli e viottoli sprofondati tra edifici altissimi, alcuni non molto diversi da tunnel schiacciati fra i ponti a mezz’aria e le altre costruzioni. Ora, distesa sotto di noi, la città pareva la visione di un sogno delineata contro i vapori del cielo occidentale, dove il basso sole antartico lottava per risplendere nel primo pomeriggio.
Quando il sole incontrava un’ostruzione più consistente, che gettava il paesaggio nell’ombra almeno temporaneamente, l’effetto diventava minaccioso in un modo che non posso sperare di descrivere. Persino il suono del vento fra le montagne - un ululato quasi musicale che soffiava tra i passi più alti, e a stento ci raggiungeva - prendeva una nota sinistra, di spiccata malvagità. L’ultima fase della discesa verso la città fu più ripida e brusca, e uno sperone di roccia che si trovava proprio nel punto in cui cambiava l’inclinazione ci fece supporre che un tempo doveva essere esistita una terrazza artificiale. Sotto il ghiaccio, secondo noi, c’era una scalinata o il suo equivalente.
Quando ci immergemmo nella città-labirinto, incespicando sui blocchi crollati e cercando di sfuggire l’oppressiva vicinanza e l’altezza schiacciante delle mura intaccate o in rovina, le nostre emozioni raggiunsero un tale livello che ancora una volta mi stupisco del nostro autocontrollo. Danforth era ridotto a un mucchio di nervi e cominciò a fare insensate supposizioni sull’orrore all’accampamento; io ne rimasi turbato, tantopiù che non potevo fare a meno di condividere certe conclusioni suggerite da alcuni aspetti di quella morbosa reliquia di età perdute.
1 comment