Era senz’altro la blasfema città del miraggio che ci appariva nella sua nuda, obbiettiva, ineluttabile realtà. Dopotutto il maledetto prodigio aveva un fondamento concreto… Probabilmente uno strato orizzontale di polvere di ghiaccio si era alzato verso gli strati superiori dell’atmosfera, e la traumatica reliquia di pietra aveva proiettato la sua immagine oltre le montagne secondo le semplici leggi della riflessione. Ovviamente il miraggio era distorto ed esagerato, con particolari che la sorgente reale non conteneva; ma ora, in presenza della fonte, la giudicammo ancora più orribile e minacciosa che non la proiezione.

Solo l’incredibile, inumana solidità delle grandi torri di pietra e dei bastioni che costituivano l’orribile dedalo lo aveva salvato da completa distruzione nelle centinaia di migliaia d’anni, forse milioni, in cui aveva proiettato le sue ombre sull’altipiano sferzato dal vento. “Corona Mundi…

il tetto del mondo…” Ogni sorta di epiteti fantastici salirono alle nostre labbra mentre fissavamo l’incredibile spettacolo. Ancora una volta pensai ai miti antichissimi che mi perseguitavano da quando avevo messo piede nel desolato mondo antartico: all’altipiano di Leng, ai Mi-Go, agli abominevoli uomini delle nevi che si dice vivano sull’Himalaya, ai Manoscritti pnakotici con i loro riferimenti a età preumane, al culto di Cthulhu, al Necronomicon e alle leggende iperboree dell’informe Tsathoggua e della progenie stellare, - peggio che informe - associata a quell’oscura entità.

Il dedalo si estendeva per chilometri e chilometri in ogni direzione, senza mai diradare; anzi, seguendolo con gli occhi a destra e a sinistra, lungo la base dei monti più bassi che lo separavano dalla catena vera e propria, decidemmo che l’immensa distesa non diradava affatto, salvo interrompersi bruscamente a sinistra del passo che avevamo sorvolato. Ci eravamo imbattuti, per caso, nel segmento limitato di un insieme incalcolabile. Le alture che scendevano verso l’altipiano erano punteggiate da grottesche strutture di pietra che collegavano la terribile città ai familiari cubi e bastioni: evidentemente questi ultimi costituivano le sue estreme propaggini montane. Come le bizzarre imboccature delle caverne, erano altrettanto spessi sull’uno e l’altro versante della catena.

L’inconcepibile labirinto di pietra consisteva, per la maggior parte, di mura che affioravano dal ghiaccio a varie altezze: da tre metri e mezzo a oltre cinquanta metri, con uno spessore che andava da un metro e settanta a due metri e quaranta. La muraglia era composta da giganteschi blocchi di ardesia primitiva, schisto e arenaria che in alcuni punti misuravano addirittura 140 x 210 x 280 cm.; in altre zone sembrava ricavata direttamente da un irregolare letto roccioso di ardesia pre-cambrica. Gli edifici non erano affatto uniformi: c’erano numerosi “alveari” di proporzioni gigantesche ma anche strutture separate più piccole. La forma generale degli edifici era conica, piramidale o a terrazze, anche se non mancavano cilindri perfetti, cubi perfetti, ammassi di cubi e altre forme rettangolari, e ogni tanto strutture angolose il cui piano a cinque punte suggeriva l’aspetto di moderne fortificazioni. I costruttori avevano usato costantemente e con perizia il principio dell’arco, e all’epoca del massimo splendore della città erano esistite probabilmente cupole.

Il groviglio di pietra era terribilmente logorato dalle intemperie e la superficie di ghiaccio su cui svettavano le torri era cosparsa di blocchi caduti e detriti antichissimi. Dove la glaciazione era trasparente potemmo vedere le parti inferiori delle enormi strutture e notammo i ponti di pietra conservati nel ghiaccio che collegavano varie torri a diverse altezze. Sulle mura esposte scorgemmo le intaccature che corrispondevano all’estremità di ponti simili, ora scomparsi. Un’ispezione più attenta rivelò numerose grandi finestre: alcune erano chiuse da imposte di materiale pietrificato che in origine poteva essere stato legno, altre restavano spalancate in modo sinistro e minaccioso. Ovviamente molte delle rovine erano senza tetto, con i bordi superiori irregolari anche se arrotondati dal vento; altre, di forma conica o piramidale e protette da strutture più alte che sorgevano intorno, mantenevano intatta la forma originaria nonostante le inevitabili tracce di deterioramento e rovina. Con il binocolo riuscimmo a distinguere quelle che sembravano decorazioni o sculture disposte in fasce orizzontali, fra cui i misteriosi puntini raggruppati secondo modelli preordinati che avevamo già visto sugli oggetti di steatite, e che ora assumevano un significato molto più ampio.

In molte zone gli edifici erano in completa rovina e la superficie di ghiaccio era profondamente intaccata da varie cause geologiche; in altri luoghi la pietra si era consumata fino ad appiattirsi sul ghiacciaio. Un tratto piuttosto ampio, che dall’interno dell’altipiano si stendeva fino a una gola nelle alture circa un chilometro e mezzo sulla sinistra del passo che avevamo attraversato, era sgombero di edifici; concludemmo che probabilmente rappresentava il letto di un grande fiume che durante il Terziario, milioni d’anni fa, aveva attraversato la città per riversarsi in un abisso prodigioso che sottendeva la catena di montagne. Certo si trattava di una regione ricca di caverne, spelonche e segreti del sottosuolo che andavano al di là di ogni comprensione.

Ripensando alle nostre sensazioni, e ricordando la meraviglia che avevamo provato nel contemplare quella mostruosa reliquia di epoche che precedevano la comparsa dell’uomo, mi sorprende che riuscissimo a conservare una parvenza d’equilibrio. Ovviamente ci rendevamo conto che nella cronologia comunemente accettata, nelle teorie scientifiche e forse nella nostra stessa coscienza c’era qualcosa di profondamente sbagliato, ma mantenemmo il sangue freddo necessario a pilotare l’aereo, a osservare minuziosamente una quantità di particolari e scattare una serie di fotografie che possono ancora rivelarsi utili a noi e al mondo intero. Nel mio caso l’attitudine scientifica di tutta una vita mi ha senz’altro aiutato, perché al di sopra dello stupore e del senso di minaccia bruciava la fondamentale curiosità di svelare l’antichissimo mistero: sapere che specie d’esseri avessero costruito l’immensa città e poi l’avessero abitata; e quale rapporto fosse esistito fra una così straordinaria concentrazione di esseri viventi e il mondo del suo tempo o altri tempi.

Perché quella non era una città normale, ma aveva costituito il centro o nucleo primario di un capitolo incredibile e arcaico della storia della terra; e le sue ramificazioni esterne, di cui favoleggiavano vagamente i miti più oscuri e distorti, erano scomparse nel caos delle convulsioni geologiche molto prima che la razza umana come noi la conosciamo si fosse separata dalle scimmie. Davanti ai nostri occhi si stendeva una metropoli primigenia a confronto della quale le terre favolose di Atlantide e Lemuria, Commoriom e Uzuldaroum, e Olathoe nel paese di Lomar, sembrano cose recenti che non risalgono nemmeno a ieri, ma a oggi stesso; una megalopoli che reggeva il confronto con altri orribili centri preumani di cui si mormora nelle leggende: Valusia, R’Iyeh, Ib nella terra di Mnar e la Città Senza Nome nel deserto arabo. Volando su quel groviglio di torri nude e gigantesche la mia immaginazione sfuggì a tutti i vincoli e s’immerse, priva di direzione, nel regno delle pure associazioni fantastiche, fino a ipotizzare un legame fra quel mondo perduto e le più assurde supposizioni che avevo fatto dopo la scoperta dell’orrore all’accampamento.

Per dare all’aereo la massima leggerezza non avevamo riempito completamente il serbatoio del carburante: quindi bisognava usare una certa cautela nelle nostre esplorazioni. Anche così coprimmo una superficie enorme - in linea d’aria, ovviamente - e scendemmo a una quota in cui il vento si era fatto trascurabile. Non sembrava esserci limite alla catena di montagne, o all’estensione della spaventosa città di pietra che confinava con le sue vette più basse. Ottanta chilometri di volo in ogni direzione non mostrarono alcun cambiamento nel labirinto di pietra e mattoni che stava abbarbicato al ghiacciaio come un immenso cadavere. C’erano, tuttavia, alcuni tratti distintivi, come i bassorilievi visibili lungo la gola un tempo attraversata dal fiume nel suo percorso lungo le cime più basse, verso il punto in cui si gettava fra le grandi montagne. Le alture all’imbocco del fiume erano state modellate arditamente in gigantesche colonne, e nel disegno scanalato dei fusti a forma di barile c’era qualcosa che risvegliò in Danforth e me ricordi inafferrabili, orrendi e confusi.

Trovammo numerosi spazi aperti, evidentemente piazze pubbliche a forma di stella, e notammo varie ondulazioni nel terreno. In cima alle vette più pronunciate c’era quasi sempre un alto edificio di pietra, ricavato direttamente dalla roccia, ma c’erano almeno due eccezioni. Nel primo caso l’edificio che sorgeva sulla collina era troppo deteriorato per capire che tipo di costruzione fosse, mentre in cima alla seconda si vedeva un fantastico monumento conico intagliato nella roccia: somigliava alla famosa Tomba del Serpente nell’antica valle di Petra.

Allontanandoci dalle montagne e procedendo verso l’entroterra scoprimmo che la città non era di larghezza infinita, anche se in lunghezza, lungo i piedi della catena, pareva che non avesse limiti.