Questo era il progetto, ma non ancora ben fermo perché mancava l’assentimento degli interessati. Una volta, infatti, avendo Diego sentito qualche cosa come l’annunzio della sua prossima entrata nel seminario di Nuoro, scappò di casa.
Mancò due giorni e una notte, e per ricercarlo si dovette chieder anche l’aiuto dei carabinieri e dei barracelli: dopo ansie e timori indicibili fu ritrovato, nascosto fra le macchie d’un lontano podere. Bisognò non più parlargli di seminario, minacciando egli di far il bandito per davvero. Ora aveva tredici anni e studiava in privato presso il giovine maestro intelligente che aveva il diploma di professore; la sua infanzia turbolenta mischiavasi ancora al principio d’un’adolescenza maliziosa e fiera; e infatti, di giorno, quando non studiava, comandava il piccolo gregge nelle scorribande che, oltre la distruzione dell’orto, formavano il terrore degli umili vicini; di notte leggeva 2
romanzi e giornali politici, giocava a carte e rubava i sigari di Giovanni, e parlava come un giovanotto, più malizioso di Nino Faira.
Donna Martina non si dava tanto pensiero per le monellerie “fin di secolo” di Diego e dei piccini, perché ricordava che Margherita, Filippa e Maria, ai lor bei tempi eran state più monelle e sbrigliate di essi.
Ed or Margherita era un’ottima sposa, signora e massaia perfetta, e le altre due, signorine serie, educate e rispettosissime. A parer suo! D’altronde, quel carattere indomito, caparbio e focoso la famiglia lo ereditava da lei, che aveva trascorso una esistenza quasi maschile. Allevata fra inimicizie e odi di partito e di famiglia, tra fucilate e processi e agguati, donna Martina, arido tipo di donna araba, alta, secca, di un pallore bronzino, naso aquilino e occhi neri grandissimi e fulminanti, maneggiava l’archibugio meglio della spola, cavalcava arditamente e faceva da sé ogni sorta di affari, sbrigando liti e controversie, e infine navigando meravigliosamente in quel mare tempestoso ch’è un grosso patrimonio nei villaggi sardi.
Già, la buona anima di suo marito non era mai stato buono a nulla, ella diceva.
Ed essa aveva comandato sempre in casa sua.
Era ignorante e superstiziosa, ma di coscienza raffinata e di retto giudizio, nonostante la sua fenomenale superbia, che ella riconosceva.
- Mi dicono superba, - diceva, - ebbene? Siamo in tempi che per vivere bisogna armarsi di sproni; altrimenti vi si cavalca come un mulo.
Filippa le rassomigliava assai, fisicamente e moralmente; anche ella altissima per i suoi sani e forti vent’anni; una figura addirittura bizantina, con certe forme sottili ma dure, con certi occhioni oscuri e ovali, i capelli attortigliati e il vestito di percalle giallo a stelle e a ruote. Era altera, superba e ambiziosa; cavalcava stupendamente anche su puledri quasi indomiti; diceva di non creder in Dio; e benché donna Martina la dicesse una signorina educatissima, imprecava con la miglior grazia del mondo; e beffarda e sprezzante parlava male di tutti. Per lei tutti erano pezzenti, e se una persona era magra e pallida, come del resto lo era anche lei, voleva dire che non aveva di che mangiare!
Filippa era lo spauracchio di tutti i partiti del paese. Ella aspettava, ma che cosa aspettava? Lo sapevano tutti: ella aspettava un alto ideale, un laureato ricco e nobile, un presidente di Corte d’Appello, un professore d’università, o, in assoluta mancanza di questi egregi personaggi che non si lasciavano mai veder in paese, uno di quei proprietari sardi che hanno dieci tancas di fila, col fiume in mezzo; che hanno le tasche piene di fogli bancarî, ma che per sé stessi, nella loro personalità, sono… quel che sono…
(Apro una parentesi per dire che le tanche di maggior valore sono quelle provvedute di corsi d’acqua, ove il bestiame, essendo le tanche vasti pascoli chiusi, possa abbeverarsi. Una volta un ricco proprietario in berretta sarda sentì parlare dei miliardarî americani e dei milionarî europei.
- Roscilde! - disse con disprezzo. - Chi è questo Roscilde che sento sempre nominare? Cos’ha questo Roscilde? Ha delle tancas col rio in mezzo?
- No, non ne ha.
- E allora cosa è? È un corno!).
Per questa sua ambizione Filippa viveva un po’ in discordia con Margherita, alla quale non poteva perdonare le nozze plebee con un piccolo avvocato senza titoli, tranne quello di segretario comunale. Nino Faira aveva una pazza paura di Filippa, e, oltre che per naturale timidezza, non svelava apertamente il suo amore per Maria, sapendo la fanciulla imbevuta e suggestionata dalle grandiose idee della maggior sorella che la dominava completamente. Per una strana furberia istintiva egli cercava però di ammansare la fiera ragazza, comportandosi con essa come non osava con Maria: standole vicino, le rivolgeva esagerati complimenti, in modo che Filippa si credeva corteggiata; ma tanto disprezzo ne sentiva che non degnava neppure offendersene.
Ella, del resto, aveva abbastanza che fare per abbandonarsi a sciocchi sentimentalismi, teneva i registri, pagava i domestici, vendeva i prodotti e aiutava assai donna Martina negli affari più importanti.
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Ella così sapeva che in casa Marvu entravano, fra una cosa o l’altra, dodici mila lire l’anno. Di parte sua ella avrebbe avuto dunque due mila lire di rendita: quindi poteva ben pretendere, ben aspettare.
Fra tanto cozzar di passioni grandi e piccole, Maria passava quasi inosservata, sebbene anch’ella avesse la sua discreta dose di superbia e di caparbietà. Ma era tanto piccola e così poco s’immischiava negli affari, che la sua figurina sfumava accanto a quella della madre e delle sorelle. Aveva diciassette anni, piccola, bianca e pallida, con graziose lentiggini bionde sparse sulle guancie, gli occhi grandi e pensierosi e i capelli castanei, quasi d’un biondo cupo, tutti crespi, rialzati e infantilmente annodati con un nastro alla sommità della testa.
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