Era Filippa che la pettinava, profittando di quei momenti d’intimità per sottometterla alle sue opinioni sul matrimonio.
Se Diego passava in quegl’istanti, mentre Filippa teneva in pugno i lunghi e crespi capelli della sorella, diceva che questa era una piccola puledra con la coda in testa. Ella fremeva di stizza, ma appunto come una piccola puledra si sottometteva agli insegnamenti di Filippa.
Il terzo gruppo dunque era composto dal piccolo gregge, riunito attorno al gran camino, le cui ante naturalmente non mancavano di incisioni e graffiti, rappresentanti inscrizioni, figure diaboliche, mostri, caricature, date, addizioni e sottrazioni.
Da una parte sedevano le ragazzine, dall’altra Peppino e Martino, nel centro Badòra, la fantesca, una bella ragazza rossa e lucente in volto come una mela appiola, con certi occhietti verdi e un nasino irregolare; forte e maleducata.
Era la sola serva che passasse la notte dai Marvu: le altre due dormivano a casa loro. Nell’ora della veglia Badòra restava coi padroncini nella stanza da pranzo, perché in cucina c’era sempre uno dei servi, e a donna Martina la coscienza non permetteva di lasciar una ragazza sola con un uomo giovine. Una sera avea provato di lasciar i bimbi a farle compagnia in cucina. Dio ci scampi e liberi! Peppino attaccò fuoco ai piedi nudi di Sadurru, il servo che riposava e nonostante il chiasso dormiva steso su una stuoia di giunchi; e il giovinotto naturalmente si svegliò con una brutta impressione, sacramentando e gridando. I piccini risero a più non posso, saltando, inchinandosi ironicamente al servo, con le manine fra le gambe, mostrando la lingua e facendo smorfie; ma Sadurru li accusò alla padrona, dicendo che dopo le fatiche giornaliere aveva pur diritto di riposare senza pericolo d’incendi né d’altri guai. Donna Martina allora diede due secchi scappellotti a Peppino, e fece batter ritirata al piccolo gregge.
Così fino alle nove i bimbi restavano accanto al camino della stanza da pranzo, mentre Badòra filava e li teneva a bada, raccontando fiabe e storielle.
Quando Maria e Diego si stancavano di giocare venivano anch’essi fra i piccoli.
Allora il circolo, al completo, recitava le litanie agresti, così il signor Giovanni, che talvolta era uomo di spirito, chiamava quel complesso di ragionamenti misti di maldicenze, sciocchezze, bisticci, parole senza senso, o inutili e cattive e poco decenti, che derivavano dalla conversazione di quella piccola gente allegra e senza pensieri ch’era il piccolo gregge, con l’appendice di Diego, Maria e Badòra.
Quella sera però i due instancabili giocatori non accennavano a muoversi dall’angolo della gran tavola da pranzo. Diego perdeva maledettamente stando Maria attentissima perché egli non barasse né giocasse d’astuzia e d’imbroglio come spesso usavano entrambi.
Scommessa non c’era: non scommettevano mai nulla; prima di tutto, perché non avevano denari (cioè, sì, qualche volta ne avevano, quando riuscivano a vender a insaputa di donna Martina e di Filippa, qualche litro di vino o d’olio, il cui ricavo intascavano senza scrupoli, spendendolo segretamente in leccornie), e poi perché la madre non lo permetteva.
- Il giuoco da carte con scommessa è il giuoco del diavolo, è peccato sette volte mortale. Io non voglio, - diceva, - che voi scommettiate neppure la punta d’un capello. Se vi piace, giocate per giocare, altrimenti getto le carte nel fuoco.
E non solo fece questo, ma diede a Diego un paio di scappellotti quando, per mezzo di occulte spie che s’indovina chi fossero, venne a sapere che i giocatori scommettevano in segreto frutti e dolci, castagne e oggetti di vestiario. In mancanza d’altro - riferì la spia - essi si giocavano a carte la gatta 4
Occhiverdi, i cespugli di fiori dell’orto, la facoltà di dare un formidabil pugno a chi perdeva!
Bruciate le carte, donna Martina si lasciò lungamente pregare e supplicare prima di permetter ai due giocatori di riprender, con formale promessa di nulla più scommettere, il serale arrabbiato divertimento.
Ora essi giocavano così, per la sola soddisfazione di vincere: quasi sempre però la finivano male, perché giocavano slealmente, barando e imbrogliandosi a vicenda, benché stessero con tanto d’occhi aperti.
Maria rideva silenziosamente, mostrando i suoi dentini graziosamente irregolari ma bianchi e lucenti: era la decima o undicesima partita che vinceva. Diego s’arrovellava, roteando lo sguardo dalle sue carte agli occhi e alle mani di Maria. Aveva un asso e non sapeva come farlo scivolare sulle sue poche e inutili carte vinte, perché ella, a sua volta, figgeva gli occhi sulle piccole nervose mani di lui. A un certo punto si trovò disperatamente con l’asso e due sette in mano: finse di tentare un colpo estremo gettando il sette di picche, ma Maria sollevò in alto una delle sue carte e la lasciò cadere dicendo:
- Ora scoppi davvero!
La carta cadde rovescia! Diego la volse e imprecò sotto voce. Era l’asso di picche!
- Il giuoco è fatto - disse Maria.
- Non ancora: aspetta, aspetta, mia bella -. Accostò il lume, un’antica altissima lucerna di rame, con tre teste di chimera, dalle cui bocche spalancate usciva la fiammella che pareva una lingua di fuoco; s’accomodò sulla sedia e allungando destramente il collo cercò di veder le carte di Maria.
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