- Accomodatevi tra voi. Ti ho avvisato per dirti che né tu né tua moglie dovete dar retta alle cattive lingue. Io rispetto Jusepa come una mia parente. Non volete crederci? Peggio per voi… del resto accomodatevi.
- Dovete mandarla via voi - disse Bakis abbassando la voce, disarmato dalla fredda indifferenza di don Antine.
30
- Io? Ma niente affatto! Non ho alcuna ragione per poter mandarla via, io. Non mi ha mai disgustato: è attenta, fedele, laboriosa: mi ha sempre accontentato.
- Lo credo bene - ghignò zio Bakis, e s’avviò per andarsene. Fu per chiedere di veder Jusepa e di portarla via subito, ma non osò. Non ostante le sue rodomontate sentiva una istintiva paura, così, di notte, solo, in quella casa potente e misteriosa.
Egli era davvero come il dito mignolo di don Costantino: attraversando l’andito poteva piovergli una mazzata sul cappuccio, e Antonia quella notte e poi sempre sarebbe andata sola a dormire.
Era dunque meglio aspettar la dimane: avrebbe fatto venir a casa la figliastra, e la avrebbe legata ai piedi del letto.
Ma né l’indomani né mai Jusepa lasciò la casa del padrone. Don Costantino, vedovo, aveva cinquant’anni ed era l’uomo più istruito del paese: parlava l’inglese e, si diceva, anche il russo; inoltre aveva viaggiato cinque anni interi in America, in un tempo nel quale le Autorità, non sappiamo per qual ragione, credevano opportuno pensar cose cattive sul conto suo.
Poi queste cose cattive s’eran dilucidate, e don Antine era tornato.
I paesani, piuttosto arguti e maligni, che facevano le cose in grande o non le facevano, dicevano che egli aveva duecento cinquanta figli, sparsi su tutta la superficie del Messico e della Sardegna; ma veramente pochissimi se ne conoscevano, e fra questi pochi era Lelledda la sola legittima: maligna, maleducata e bella. Allevata tra serve perfide e gente senza delicatezza, a dieci anni Lelledda parlava male di tutti, imprecava, strapazzava bestie ed uomini, e pareva infine più matta che altro.
Una sera, sdraiata sul pavimento della sala da pranzo, con le gambe in aria, scriveva il suo nome col gesso, lungo le tavole pulite e levigate.
- Lel-led-da! - gridò, quando ebbe sporcato un buon tratto di pavimento. Si sollevò, diede due o tre salti, fece la ruota, pestò i piedi e tornò all’opera.
E si mise a cantare urlando:
- Lel-led-da, Fran-ce-sco, Ma-ria, Giu-sep-pa-aaa… Gat-to… vio-li-no… mo-li-no… Igna-zia-aaa… -. Indossava un vestito giallo fiammeggiante, a grandi fiori rossi, qua e là strappato sebbene nuovissimo; e coi capelli neri arruffati e con gli occhioni neri brillanti sembrava una piccola zingara, una creatura spiritata.
- Cosa diavolo stai facendo? - gridò Jusepa entrando precipitosamente. Cercò rialzarla, ma Lelledda le sfuggì di mano, si rigettò per terra, spezzò coi dentini il pezzetto di gesso che le lasciò le labbra bianche, e si rimise a urlare:
- Lel-led-da…, Ma-riaaa, Igna-zia, Gio-van-naaa, capra, ca-priolooo.
- Vuoi finirla sì o no, brutta bestiola? - disse Jusepa digrignando i denti. -
Che la volpe ti scanni, tuo padre è a letto perché si sente male, e tu urli?
Vuoi finirla?
- Mio padre è a letto, - disse allora Lelledda, - ma il tuo è nell’inferno e tuo fratello è in galera…
Benché non avesse fratelli, dimenticando che Lelledda era una bimba che parlava secondo il suo esempio, Jusepa si strappò il fazzoletto di testa, e per rabbia emise due o tre gridi. Poi picchiò abbastanza bene la ragazzina. Furono urla e grida da non dirsi; accorsero le altre serve, e don Antine fece domandare cosa diavolo accadeva (il diavolo era ingrediente indispensabile nel frasario di quella casa).
- Lo vedete? - gridò Jusepa. - Mi ha graffiato e poi dice che sono io a batterla, perché le ho detto di non disturbar suo padre.
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