Nei giorni un po’ tranquilli il pastore, affidata la greggia ad un suo compagno, si recava alla caccia del cervo e del muflone su per i monti. Un bel giorno d’inverno, mentre cacciava, vide un magnifico cervo poco distante da lui: lo sparò, e lo ferì leggermente, ma non poté pigliarlo. E si mise ad inseguirlo. Il cervo balzava di rupe in rupe, velocissimo; ma il pastore non meno agile, si teneva sempre sulle sue orme, deciso a ucciderlo. Arrivarono così in cima della montagna. La neve copriva i picchi, le rocce, i precipizi; ma il cacciatore, esperto dei luoghi, continuava la sua caccia senza inciampare in una sola pietra, affascinato dal cervo meraviglioso, bellissimo, le cui corna ramate erano alte più di sei pal-mi. A un tratto l’animale sparì, improvvisamente, sprofondandosi nella neve.

Il cacciatore raggiunse il posto e si trovò sull’orlo di una nurra spaventosamente profonda.

Il cervo non si vedeva più, ma dal fondo della nurra saliva un’eco tetra di sogghigni infernali. Il misero pastore comprese allora che il cervo era il diavolo in persona e cercò di fuggire, ma la neve su cui posava i piedi sprofondò e prima ch’egli si fosse fatto il segno della croce precipitò nell’immensità dell’abisso…

Il suo compagno lo attese due giorni, ma non vedendolo tornare temé qualche disgrazia e si diede a cercarlo pei monti. Le orme lasciate dal disgraziato sulla neve gli indicarono la triste sua fine.

Tornò nel villaggio e presa una grande quantità di corde si avviò con altri tre pastori alla nurra. Là giunti unirono le corde e, legato alle ascelle il compagno del caduto, lo calarono nella nurra. Ma per quanto le corde fossero lunghissime lo strano palombaro non toccò il fondo. I pastori lo trassero e quando egli venne fuori era livido in volto e tremava verga a verga. Un profondo terrore gli scon-volgeva i sentimenti, ma sulle prime non volle rivelarne la causa. Portato sulle spalle dai compagni tornò a casa sua, e appena arrivato fu colto da una febbre violentissima che tre giorni dopo lo condusse alla fossa… Prima di morire rivelò la causa misteriosa del suo spavento. A misura che scendeva entro la nurra gli appariva sulle pareti scabrose un omino nero con le corna e con una falce in mano. E ogni tanto stendeva questa falce verso la corda minacciando di romperla e di far precipitare il pastore nell’inferno, insieme al suo compagno!

La leggenda di Aggius

Al finire del secolo XVII c’erano in Aggius - piccolo villaggio della Gallura - due ragazzi, figli di due famiglie nemiche, che, come accade sovente in Sardegna, ed anche altrove, facevano all’amore.

Lei aveva tredici anni, egli quindici; ma benché così giovani sembravano, forti e belli entrambi, grandi di vent’anni, e si amavano perdutamente, con tutta la passione indomita degli abitanti della Gallura, bizzarra regione montuosa al nord dell’isola, che ha, nel paesaggio e nella natura dei nativi, molta rassomiglianza con la vicina Corsica.

Ma, come accennai, le famiglie dei due amanti erano nemiche. Pare che tutto il villaggio fosse diviso in due fazioni, e l’odio il più mortale soffiava negli animi di entrambe: ad una apparteneva la famiglia del giovine, all’altra quella della fanciulla. Ciò non impediva che essi si adorassero e che si dessero frequenti convegni notturni nella stessa casa di lei. Usavano le più fini prudenze, la vigilan-za più intensa, ma alla fine furono scoperti e il padre di lei, ardente d’ira e d’odio, una notte solenne, una notte di Pasqua, trucidò il misero amante. L’inimicizia allora fra le due fazioni si rinfocolò tanto che li costrinse ad aperta battaglia. E scesero in campo! Schierati in una piccola pianura sottostante ai monti rocciosi e desolati, gli abitanti di Aggius, armati di carabine e di pugnali, stavano per az-zuffarsi, allorché al primo colpo di archibugio, tirato dal padre della povera innamorata, s’udì un terribile rombo che echeggiò per tutta la Gallura.

Erano rovinate le montagne, ed erano cadute sui maledetti guerrieri, seppellendoli sotto le rocce immense donde nessuna forza umana poteva più trarli.

Scamparono solo pochi abitanti, vecchi, donne e fanciulli che non avevano preso parte alla battaglia. E la causa di tanta rovina, oltre quella innocente dei due giovani amanti, era stata il diavolo, il diavolo che abitava sulle vette dei monti. E qui copio dal triste e fremente romanzo di Enrico Costa Il Muto di Gallura:

«Egli - il diavolo - di tanto in tanto si piaceva affacciarsi ai massi di granito per guardare con occhio di fuoco il sottostante villaggio.