Ogni chiesa campestre, ogni rovina di castello o di chiostro, ogni villaggio, ogni cussorgia (tratto di regione che ha un dato nome), ogni grotta, ogni dirupo, ogni montagna, ogni landa ha la sua leggenda. Talune leggende si incrociano e si confondono con le fiabe, - ed una di queste è la prima delle due che oggi ho il piacere di narrarvi, - al verosimile mescolando il fantastico, con lon-tane reminiscenze delle leggende nordiche, delle saghe, delle fiabe fiamminghe o alemanne, - ma la miglior parte ha una esplicazione tutta locale, che ne delinea nitidamente il carattere.
Sono personaggi storici che si mescolano coi diavoli, con le fate, con le streghe e le janas; sono i giganti, da cui il popolo sardo crede fossero abitati i nuraghes, sono i Saraceni, i Pisani, i Genovesi, gli Spagnoli, i Giudici, i Vescovi che in ogni tempo, - dopo la dominazione romana, di cui soltanto i Sardi, pur restando tanto profondamente latini, negli usi e nella favella, non si ricordano quasi, - fecero del bene e del male all’isola. Sono i Doria e i Malaspina, sono i giudici di Torres, i vicerè ara-gonesi, i frati, le maliarde fiorite nel medio-evo, sono le scorrerie e le avventure dei pirati saraceni, negli ultimi secoli prima del mille, sono artisti ignoti, forse del trecento e del quattrocento, non ri-cordati neppure dalle scarse cronache sarde, e dame misteriose e santi e guerrieri, e talvolta lo stesso Gesù o la stessa Maria.
Molte poi delle leggende sarde hanno un vero valore storico, specialmente quelle di talune chiese e di qualche montagna. Senza ombra di fantasticheria, senza fronde, senza personaggi sovrannatura-li, formerebbero, se ben raccolte e ben studiate, degli elementi, dirò anzi dei documenti vivi, utili per la storia sarda.
6 Questo prologo e le leggende “I tre fratelli” e “Monte Bardia” sono state pubblicate in Vita Sarda, III, 10 dicembre 1893.
I tre fratelli7
Nella catena di monti che circondano Nurri, e precisamente nel monte chiamato Pala Perdixi o Corongius, c’è una grotta naturale, assai ampia e interessante, dove i contadini e i pastori si rifugia-no per riposarsi, e talvolta per passarvi la notte. Una volta tre fratelli, tre buoni abitanti del villaggio, stanchi di aver raccolto olive tutta la giornata entrarono, verso sera, per riposarsi in questa grotta. Mentre stavano ragionando tranquillamente fra loro di cose di campagna, e cenando con del pane e del magro companatico, videro entrare tre donne, che si fermarono dubbiose sull’ingresso, guar-dandoli con diffidenza. Ma subito essi, da buoni giovani che erano, le invitarono gentilmente ad avanzarsi ed a prender parte alla loro cena. Le donne accettarono. Finito il pasto, dopo molti inutili ragionamenti, esse chiesero ai tre lavoratori chi fossero e come si chiamavano.
«Siamo tre fratelli orfani», risposero essi con buona grazia, «e lavoriamo per vivere. Siamo tanto poveri che se sapessimo come migliorare la nostra condizione davvero che lo faremmo volentieri.»
Le tre donne che erano tre streghe ( orgianas) o meglio tre fate, si consultarono con lo sguardo, prima; poi parvero combinare qualcosa fra loro, con uno strano linguaggio che sembrava piuttosto un miagolio.
Quindi la più vecchia si levò di tasca una tovaglia e la diede al maggiore dei fratelli dicendogli:
«Buon giovine, prendi questo dono che ti faccio da vera amica. Tutte le volte che vorrai mangia-re, tu, i tuoi fratelli e tutta la compagnia, non avrai che da sbattere tre volte questa tovaglia, sten-dendola poscia dove tu vorrai. E sopra di essa ti comparirà ogni ben di Dio».
La seconda delle fate si rivolse al secondo fratello e gli offrì un portafogli dicendogli:
«E tu prendi questo. Tutte le volte che lo aprirai ci troverai denaro a tua volontà».
La più giovine intanto porgeva un piffero ( sas leoneddas) al terzo, con queste parole: «Questo strumento da fiato che io ti do servirà non solo per te, ma per tutti coloro che lo suoneranno e lo u-dranno. Va’, caro fanciullo, io non ho altro di meglio, ma vedrai che questo umile dono ti renderà un servigio maggiore di quello che renderanno ai tuoi fratelli la tovaglia e il portafogli».
Dopo tutto questo i giovani e le tre fate si congedarono amabilmente, ringraziandosi scambie-volmente e dicendosi il rituale teneis’accontu (tenetevi bene) dei sardi meridionali.
I tre giovani, possessori di quei talismani meravigliosi, non avendo più bisogno di lavorare, presero a viaggiare per le città dell’isola in cerca di avventure e di piaceri.
Da per tutto lasciavano tracce di beneficenza e di generosità - giovani di buon cuore come erano
-, ma un giorno un prete potente e strapotente intimò loro di lasciar l’uso dei loro talismani, pena la scomunica e il carcere.
Qui (apro una parentesi) la leggenda non parla chiaro, ma probabilmente questo brano è un vago ricordo dell’Inquisizione impiantata in Sardegna verso la metà del secolo XV, ma esercitata anche prima d’allora da alcuni frati minoriti, e importata naturalmente dalla Spagna.
I tre fratelli risero per l’intimazione del prete. I talismani erano invisibili a tutti, tranne che ai loro possessori; quindi essi non avevano di che temere. Alle replicate minacce del prete il più giovane dei fratelli si pose a suonare il piffero, che aveva l’incanto di far ballare con la sua musica tutti coloro che la sentivano, tranne i tre fratelli. Ed ecco il prete che, contro volontà, si diede a ballare con uno slancio proprio ridicolo e irrefrenabile.
1 comment