Sappiamo che il cancro della convivenza familiare non è legato che superficialmente a determinati regimi e statuti socio-politici. Gli stessi strumenti della psicanalisi, che qui sembrano essere invocati a gran voce per far luce e consigliare rimedi, paiono impotenti di fronte a un tal groviglio di contraddizioni e di assurdità, capaci di produrre dolore a ritmo continuo e frustrazioni (magari geniali) in quantità inverosimile.
Si torna, circa l’origine di tutto ciò, a ipotizzare “qualcosa che non funziona” o che funziona male, nella macchina uomo, fin dal suo esordio (così come anche gli atei più radicali, per ciò che concerne la fine, si sono abituati a mutuare il concetto squisitamente biblico-religioso dell’apocalisse).
Parlare di “peccato originale” mette disagio, pare implicare un ricatto di natura sacrale e confessionale. Si cerchi un altro termine, ma la sostanza più o meno rimane la stessa. E questa Lettera al padre è un documento terribile e per nulla letterario, meno ancora filosofico-razionale, di questa spaventosa incongruenza, di questa ostinata follia “senza metodo” che fin dalla notte dei tempi, avvelena ogni nostra più promettente giornata.
Si era partiti dalla narratività pura: e l’avevamo individuata subito, originale e rigogliosa, in quest’epistola senza vero destinatario. Ed eccoci arrivati alla filosofia, alla teologia, all’etica, alla metafisica: anche questa
“famiglia” è qui rappresentata in maniera compatta e significativa. Non fa meraviglia. Mai, in Kafka, l’artista smette per un istante di essere anche filosofo e profeta; e viceversa. Col risultato che ridurre Kafka a una sola di queste due componenti non solo è operazione distruttiva, ma sovranamente ridicola. E con un’altra risultanza determinante: che in Kafka sia i narratori sia i pensatori trovano un maestro e uno stimolo di uguale importanza rivoluzionaria. Per di più, la sua è una rivoluzione che, pur non perdendo nulla del suo potere dirompente, si esprime con la limpida perfezione della classicità. Ce n’è quanto basta per fare di Kafka lo scrittore più imprevedibile e inesauribile del ventesimo secolo.
ITALO ALIGHIERO CHIUSANO.
LETTERA AL PADRE.
Carissimo padre, di recente mi hai domandato perché mai sostengo di avere paura di te. Come al solito, non ho saputo risponderti niente, in parte proprio per la paura che ho di te, in parte perché questa paura si fonda su una quantità tale di dettagli che parlando non saprei coordinarli neppure passabilmente. E
se anche tento di risponderti per iscritto, il mio tentativo sarà necessariamente assai incompleto, sia perché anche nello scrivere mi sono d’ostacolo la paura che ho di te e le sue conseguenze, sia perché la vastità del materiale supera di gran lunga la mia memoria e il mio intelletto.
Per te la cosa è sempre stata molto semplice, almeno nella misura in cui ne hai parlato davanti a me e, indiscriminatamente, davanti a molti altri. Ti pareva che stesse più o meno così: tu hai lavorato sodo per tutta una vita, hai sacrificato ogni cosa per i tuoi figli, soprattutto per me; di conseguenza io ho fatto la bella vita, ho avuto la massima libertà di studiare quello che volevo, non ho dovuto preoccuparmi né di procurarmi il cibo né di qualsiasi altra cosa; tu non pretendevi per questo la mia gratitudine, la conosci, “la gratitudine dei figli”, ma almeno un po’ di gentilezza, qualche accenno di compassione, e invece io mi sono sempre rifugiato davanti a te, in camera mia, tra i miei libri, coi miei amici stravaganti, nelle mie idee eccentriche; non ti ho mai parlato apertamente, non mi sono mai messo accanto a te nel tempio né ti sono mai venuto a trovare a Franzensbad; inoltre non ho mai avuto il senso della famiglia, non mi sono mai occupato del negozio e delle altre cose tue, la fabbrica l’ho addossata a te e poi ti ho abbandonato, ho dato man forte a Ottla nella sua testardaggine, e mentre per te non muovo un dito (non ti prendo nemmeno i biglietti per il teatro), per gli amici faccio tutto.
Riassumendo il tuo giudizio su di me, ne emerge che non mi rimproveri, a dire il vero, qualcosa di davvero sconveniente o malvagio (fatta eccezione forse per il mio ultimo progetto matrimoniale), ma freddezza, distanza, ingratitudine. E me lo rimproveri come se fosse colpa mia, come se con una bella sterzata io fossi stato in grado di indirizzare diversamente il tutto, mentre tu non ne hai la minima colpa, se non forse quella di essere stato troppo buono con me. Trovo questa tua interpretazione esatta soltanto nel senso che anch’io credo che tu non abbia colpa alcuna del nostro allontanamento. Ma non ne ho colpa neppure io. Se potessi portarti a riconoscere questo, allora sarebbe possibile - non una nuova vita, per questo siamo entrambi troppo vecchi - ma una certa pace, non una cessazione, ma un’attenuazione dei tuoi incessanti rimproveri.
Una vaga idea di quello che voglio dire ce l’hai, sorprendentemente. Così poco tempo fa mi hai detto, per esempio: “Mi sei sempre piaciuto, anche se esteriormente non sono stato per te quel che amano essere altri padri, ma proprio perché io non so fingere come gli altri”. Vedi, padre, nel complesso io non ho mai dubitato della tua benevolenza nei miei confronti, ma trovo ingiusta questa osservazione. Tu non sai fingere, è vero, ma voler affermare solo per questo che gli altri padri fingono, può essere pura prepotenza, su cui non si può discutere, oppure - e a mio avviso le cose stanno così - un modo velato per suggerire che tra noi c’è qualcosa che non va, e che tu ne sei concausa, anche se non ne hai colpa.
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