La maggior parte non cerca neppure di capire la nuova dottrina per farsene un’idea, ma aspetta di vedere quale sarà l’atteggiamento della 10

maggioranza. Il movimento antischiavista, quando ebbe inizio nel Nord tre quarti di secolo fa, non suscitò nessuna simpatia. La stampa, il clero e la grande maggioranza delle persone rimasero indifferenti. Questo accadde per timidezza, per paura di esprimersi e diventare impopolari, non perché si approvasse la schiavitù o non si avesse pietà per gli schiavi. A questa regola non sfuggono neppure gli Stati, come quello della Virginia, e neanche io stesso: ci siamo aggregati alla causa dei Confederati non perché lo volessimo, non era così, ma perché volevamo essere come gli altri. É

semplicemente una legge di natura — e

l’abbiamo seguita. E il desiderio di essere uguali agli altri che porta al successo i partiti politici. Non c’è — nella maggioranza — un motivo particolarmente elevato per aderire a un partito, a meno che non si ritenga un motivo valido il fatto che ne facesse parte il proprio padre. Il cittadino medio non è uno studioso delle dottrine dei partiti, e a ragione: né lui né io saremmo in grado di comprenderle. Se gli 11

chiedessimo di spiegare in modo dettagliato perché abbia preferito una bandiera a un’altra, il risultato del suo sforzo sarebbe penoso. Lo stesso vale per la questione delle protezioni doganali. Lo stesso vale per qualsiasi altra grande dottrina politica; perché tutte le grandi dottrine politiche sono piene di problemi difficili — problemi molto al di fuori della portata del cittadino medio. E questo non è strano, dato che sono anche al di sopra della portata delle più acute menti del Paese; dopo tanto chiasso e tante chiacchiere, per nessuna di queste dottrine si è potuta fornire la definitiva dimostrazione che fosse quella giusta, quella migliore.

Quando un uomo ha aderito a un partito, è probabile che ci rimanga. Se cambia opinione

— intendo il modo di sentire, di pensare — è probabile che continui a restarci ugualmente; i suoi amici appartengono a quel partito; terrà quindi per sé il diverso modo di sentire, e pubblicamente continuerà a sostenere quanto ha già rinnegato in privato. Solo in questo modo 12

può godere del privilegio americano della libertà di espressione. Di questi poveretti se ne trovano in entrambi i partiti, ma non possiamo dire in quale proporzione. Perciò non sapremo mai quale partito abbia realmente ottenuto la maggioranza alle elezioni. La libertà di parola è il privilegio dei morti, il monopolio dei morti.

Essi possono dar voce alle loro oneste opinioni senza offendere nessuno. Abbiamo

comprensione per cosa dicono i morti.

Possiamo disapprovare ciò che dicono, ma non li insultiamo, non li oltraggiamo: sappiamo che non possono difendersi. Se dovessero parlare, che rivelazioni ci sarebbero! Si scoprirebbe che in materia di opinioni nessun defunto era esattamente ciò che sembrava essere in vita; che per paura, o per calcolata saggezza, o per riluttanza a ferire gli amici, si è a lungo tenuto certe insospettabili opinioni all’interno del suo piccolo mondo, portandosele con sé, inespresse, fin nella tomba. Da ciò, dunque, i viventi dovrebbero giungere alla toccante e riprovevole consapevolezza del fatto che anche loro sono 13

condannati alla stessa sorte. Si renderebbero conto, in fondo, che pure loro, e con loro l’intera nazione, non sono davvero ciò che sembrano essere — e che non potranno mai esserlo.

Ora, non vi è quasi nessuno tra noi che vorrebbe sinceramente rivelare i propri segreti; sappiamo di non poterlo fare in vita; ma allora perché non farlo dalla tomba e prenderci questa soddisfazione? Perché non parlarne nel nostro diario, invece di tralasciarli con discrezione?

Perché non scriverli e lasciare poi il diario agli amici? La libertà di parola è davvero ambita.

Me ne sono accorto a Londra, cinque anni fa, quando i simpatizzanti dei Boeri — persone rispettabili, bravi cittadini che pagano le tasse, con tutto il diritto di avere le proprie opinioni come ogni altro cittadino — sono stati attaccati durante le loro riunioni, e i loro oratori maltrattati e allontanati dal palco da cittadini che la pensavano in modo diverso. Me ne sono accorto anche in America, quando abbiamo aggredito chi si riuniva e picchiato gli oratori. E

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me ne accorgo particolarmente ogni settimana o due, quando voglio dare alle stampe qualcosa che la discrezione mi direbbe di non pubblicare.

A volte i miei sentimenti sono così violenti che devo prendere la penna e riversarli sulla carta per impedire che il loro fuoco si consumi dentro di me; ma tutto quell’inchiostro e quella fatica vanno sprecati, perché non posso pubblicare ciò che scrivo.