La vetrina contrassegnata «E» era aperta; e io estrassi il cassetto, lo ricoprii di paglia, lo avvolsi in una carta, e me ne tornai con quello in Cavendish Square.
Qui procedetti a esaminarne il contenuto. Le polveri erano composte abbastanza accuratamente, ma non con l’esattezza di un chimico; era chiaro che le aveva fatte Jekyll stesso, in privato; e, quando aprii una delle bustine, vi trovai quello che mi sembrò un semplice sale bianco cristallino. La fiala, a cui rivolsi poi la mia attenzione, era riempita a metà di un liquido color rosso sangue, dall’odore molto acuto, mi parve contenere fosforo con qualche etere volatile. Degli altri ingredienti non potevo indovinare nulla. Il fascicolo era un comune quaderno di appunti e conteneva poco, oltre una serie di date. Queste comprendevano un periodo di molti anni, ma osservai che le annotazioni s’interrompevano circa un anno prima, e bruscamente. Qua e là una breve nota era aggiunta a una data, per lo più una sola parola: «doppio», che si ripeteva forse sei volte nel giro di parecchie centinaia di date; una volta al principio della lista, seguita da molti punti esclamativi, vidi l’iscrizione: «fallimento completo!!!». Tutto questo, sebbene eccitasse la mia curiosità, non mi diceva molto di definitivo. C’era una fiala di un qualche liquido colorato, una cartina di una qualche polvere, e l’annotazione di una serie di esperimenti che non avevano condotto (come tanti altri nelle ricerche di Jekyll) ad alcun risultato di pratica utilità. Come poteva la presenza di simili oggetti in casa mia colpire l’onore, la sanità mentale o la stessa vita del mio strano collega? E, pur ammettendo qualche impedimento, perché il suo messaggero doveva venire ricevuto da me in segreto? Più riflettevo, più mi convincevo di avere a che fare con un caso di malattia mentale; e, pur mandando i miei servi a dormire, caricai una vecchia pistola per potermi trovare pronto alla difesa.
Era appena suonata la mezzanotte su Londra, quando fu bussato lievemente alla mia porta. Andai io stesso ad aprire, e mi trovai davanti a un uomo di bassa statura accovacciato fra i pilastri del portico.
«Venite da parte del dottor Jekyll?» domandai.
Mi rispose di sì, con un gesto forzato; e, quando gli dissi di entrare, mi obbedì, gettando un’occhiata indietro nell’oscurità della piazza. C’era una guardia non lontano di lì, che veniva avanti con la lanterna accesa; vedendola, pensai che il mio visitatore la temesse, e, infatti, entrò in fretta. Questi particolari mi colpirono, lo confesso, piuttosto sgradevolmente; e, mentre lo seguivo nella chiara luce della mia stanza di consultazione, tenevo la mano pronta sull’arma. Finalmente potei vederlo chiaramente. Non avevo mai messo gli occhi su di lui prima, ne ero certo. Era piccolo, come ho già detto; fui colpito, oltre che dalla terribile espressione della sua faccia, dalla notevole mescolanza di grande forza muscolare e di grande debolezza di costituzione, e, cosa non meno notevole, dalla strana e soggettiva sensazione di disagio che mi provocava la sua vicinanza. Sembrava quasi un principio di irrigidimento, accompagnato da una notevole debolezza del polso. Lì per lì, l’attribuii ad un disgusto personale, a un’idiosincrasia, e mi stupii solo dell’acutezza dei sintomi; ma poi ebbi motivo di credere che la causa fosse insita molto più profondamente nella natura umana, e che si basasse su qualcosa di molto più nobile del sentimento dell’odio.
Quell’essere (che sin dal primo momento del suo ingresso aveva sollevato in me quello che posso descrivere solo come una curiosità piena di disgusto) era vestito in maniera capace di render ridicola qualsiasi persona normale; i suoi abiti, sebbene fossero di fattura elegante e sobria, erano enormemente ampi per lui in tutti i sensi: i pantaloni gli pendevano sulle gambe ed erano rimboccati per non toccare il suolo, la vita della giacca gli arrivava sotto i fianchi, il colletto gli si allargava sulle spalle. Strano a dirsi, questo grottesco abbigliamento era ben lontano dal farmi ridere. Piuttosto, come c’era qualcosa di anormale e di deforme nella natura di quell’essere che mi stava di fronte, qualcosa di singolare, di sorprendente e rivoltante allo stesso tempo, così quella nuova stonatura pareva rinforzarne la singolarità; perciò al mio interesse per la natura e il carattere dell’uomo si aggiungeva la curiosità circa la sua origine, la sua vita, la sua fortuna e la sua posizione nel mondo.
Queste osservazioni, sebbene richiedano molto spazio per essere riferite, allora furono istantanee. Il mio visitatore era in preda a una cupa agitazione.
«L’avete?» gridò «l’avete?» E la sua impazienza era tanto viva, che la sua mano si posò sul mio braccio e cercò di scuotermi.
Lo respinsi, avvertendo al suo contatto un certo brivido gelato nelle vene.
«Via, signore,» dissi «dimenticate che non ho ancora il piacere di conoscervi. Sedete, prego.»
Gli detti l’esempio, e sedetti anch’io nella mia solita poltrona, assumendo le solite maniere che uso verso un paziente, per quanto me lo permettevano l’ora tarda, la natura delle mie preoccupazioni, e l’orrore che provavo per il mio ospite.
«Vi chiedo scusa, dottor Lanyon» rispose quello, abbastanza cortesemente. «Quanto dite è molto giusto; la mia impazienza ha vinto l’educazione. Vengo per ordine del vostro collega, dottor Henry Jekyll, per un affare di una certa importanza; e so che…» s’interruppe, e si portò una mano alla gola e mi accorsi che, nonostante i suoi modi composti, stava lottando contro l’approssimarsi di una crisi isterica: «So che un certo cassetto…»
A questo punto ebbi pietà dell’ansia del mio visitatore, anche forse per la mia crescente curiosità.
«Eccolo, signore» dissi, indicando il cassetto che giaceva sul pavimento, sotto una tavola, ancora ricoperto della carta.
Quello si precipitò, poi si trattenne, e si portò una mano al cuore; potevo sentire i suoi denti scricchiolare nel movimento convulso della mascella; e la sua faccia era così spettrale a vedersi, che mi allarmai per la sua vita e la sua ragione.
«Calmatevi» gli dissi.
Mi rivolse un terribile sorriso, e con l’impulso della disperazione, tirò fuori il cassetto. Alla vista del contenuto, emise un forte singhiozzo di un tale immenso sollievo che io rimasi pietrificato. Subito dopo, con una voce già tornata normale, mi domandò: «Avete un bicchiere graduato?»
Mi alzai con una certa fatica e gli porsi quello che chiedeva.
Mi ringraziò con un sorridente cenno d’assenso, misurò poche gocce del liquido rosso e vi aggiunse una delle polveri. La miscela, che da principio era di colore rossastro, diventò, man mano che i cristalli si scioglievano, più chiara ed effervescente, e prese a emanare piccoli getti di vapore. Nello stesso attimo improvvisamente, l’ebollizione cessò e il composto diventò di uno scuro color porpora, che cangiò di nuovo e più lentamente in un color verde acqua. Il mio visitatore, che aveva scrutato quelle metamorfosi con occhio attento, sorrise, depose il bicchiere sulla tavola, poi si voltò a guardarmi con aria scrutatrice.
«E ora,» disse «concludiamo. Volete essere saggio? Volete un buon consiglio? Permettete che io prenda questo bicchiere in mano, e me ne vada dalla vostra casa senza ulteriori parole? Oppure la curiosità domina in voi? Pensateci, prima di rispondere, perché sarà fatto quello che deciderete voi.
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