Se deciderete per lasciarmi andare, resterete come prima, né più ricco né più saggio, a meno che la coscienza di un servigio reso a un uomo in un momento di disperazione mortale non possa essere considerata come una specie di ricchezza spirituale. Oppure, se preferirete sapere, tutto un nuovo mondo di cognizioni, nuove vie verso la fama e il potere vi saranno aperte davanti, qui, in questa stanza, in questo stesso attimo; la vostra vista sarà abbagliata da un prodigio tale da scuotere l’incredulità di Satana.»
«Signore,» dissi io, ostentando una freddezza che ero ben lontano dal provare «parlate per enigmi, e forse non vi stupirete che io vi ascolti con poca credulità. Ma ormai sono andato troppo avanti su questa via di inesplicabili servigi, per arrestarmi prima di vederne il termine.»
«Bene» rispose il mio visitatore. «Lanyon, ricordate i vostri voti: ciò che segue è sotto il suggello del segreto professionale. E ora, voi che siete stato tanto tempo legato alle più strette e grette vedute, voi che avete negata la virtù della medicina trascendentale, voi che avete deriso chi vi era superiore… guardate!»
Si portò il bicchiere alle labbra, e bevve il contenuto in un sorso. Udii un grido; barcollò, vacillò, si aggrappò alla tavola con gli occhi sbarrati e iniettati di sangue, ansando con la bocca aperta; e, mentre lo guardavo, si trasformava, così mi sembrò, pareva gonfiarsi, la faccia diventò improvvisamente nera, i suoi lineamenti parvero dissolversi e alterarsi; l’attimo successivo io ero balzato in piedi ed indietreggiavo verso il muro, alzando il braccio come per difendermi da quel prodigio, con l’animo sommerso dal terrore.
«Oh, Dio!» gridai, e poi di nuovo: «Oh, Dio, oh, Dio!» Davanti ai miei occhi, pallido, tremante, e mezzo svenuto, con le mani che annaspavano in avanti, come un uomo che risusciti, stava Henry Jekyll!
Quello che mi disse durante l’ora che seguì, non sono capace di trascriverlo sulla carta. Vidi quello che vidi, udii quel che udii, e il mio animo ne cadde ammalato; e anche ora, che quella vista non è più davanti ai miei occhi, mi chiedo se debbo credervi, e non so rispondere. La mia stessa vita è scossa dalle radici; il sonno mi ha abbandonato; il più mortale terrore mi domina a ogni ora del giorno e della notte; sento che le mie ore sono contate, e che devo morire; eppure morrò incredulo. Quanto alla turpitudine morale che quell’uomo mi ha rivelato, anche se con le lacrime del pentimento, non sono capace neppure nel ricordo di pensarvi se non con un brivido di orrore. Dirò solo una cosa, Utterson, e (se riuscirete a crederla) sarà più che sufficiente: la creatura che s’insinuò in casa mia quella notte era, secondo la confessione dello stesso Jekyll, conosciuta con il nome di Hyde, ed era ricercata in ogni angolo della terra come l’assassino di Carew.
Hastie Lanyon
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LA RELAZIONE DI JEKYLL SUL CASO
Sono nato nell’anno 18.., notevolmente ricco, e dotato inoltre di eccellenti qualità, incline per natura all’operosità, pieno di rispetto per i miei maggiori e ben disposto verso i miei simili; perciò, come si poteva supporre, avevo ogni garanzia di un avvenire onorevole e brillante. In verità, il peggiore dei miei difetti era quella certa impaziente vivacità, che ha fatto la fortuna di molti, ma che io trovai sempre difficile conciliare con il mio imperioso desiderio di portare la testa alta e di presentare al pubblico un contegno più grave del normale. Di conseguenza avvenne che io nascondessi i miei piaceri; e, quando raggiunsi l’età della riflessione e cominciai a guardarmi intorno e a considerare il mio progresso e la mia situazione nel mondo, mi trovai già impegnato in una profonda duplicità di vita. Più di una persona avrebbe anche vantato le irregolarità delle quali io ero colpevole; ma, date le alte vedute che avevo, io le consideravo e le celavo con un senso di vergogna quasi morboso. Fu perciò la natura prepotente delle mie aspirazioni, più che qualsiasi particolare degradazione nei miei errori, a rendermi quello che fui, e, con un abisso più profondo che nella moltitudine degli uomini, separò in me il dominio del bene dal dominio del male, che dividono e compongono la natura dualistica dell’uomo.
In questo caso, ero portato a riflettere profondamente e lungamente su quella dura legge della vita, che sta alla radice della religione ed è una delle più copiose sorgenti di dolore. Benché profondamente duplice, io non ero affatto un ipocrita; tutt’e due i miei lati erano estremamente sinceri; io ero sempre me stesso, sia che mettessi da parte qualsiasi riserbo e sprofondassi nella vergogna, sia che mi affaticassi, alla luce del giorno, per il progresso della scienza o per il sollievo dai dolori e dalle sofferenze. Avvenne che la direzione dei miei studi scientifici, che portavano direttamente verso il mistico e il trascendentale, deviasse e gettasse una viva luce su questa coscienza della perenne lotta tra le mie membra. Ogni giorno, e secondo i due impulsi del mio animo, morale e intellettuale, io mi avvicinai così a quella verità, la scoperta parziale della quale mi ha trascinato a una così orribile catastrofe: e cioè che l’uomo non è in verità unico, ma duplice. Dico duplice perché lo stato della mia conoscenza non va oltre questo punto. Altri seguiteranno, altri mi sorpasseranno in questa direzione, e io posso osare prevedere che infine l’uomo verrà riconosciuto come un risultato di molteplici, incongrui ed indipendenti entità. Da parte mia, per la natura della mia vita, ho proceduto infallibilmente in una sola direzione. Fu studiando il lato morale nella mia stessa persona che imparai a riconoscere la profonda e primitiva dualità dell’uomo; ho visto che, delle due nature che lottavano nel campo della mia coscienza, anche se potevo dire giustamente di essere l’una o l’altra, appartenevo in realtà radicalmente a tutt’e due; e sin dagli inizi, anche prima che il corso delle mie scoperte scientifiche avesse cominciato a suggerirmi la possibilità di un simile miracolo, avevo appreso a compiacermi, come in un bel sogno, al pensiero della separazione di quegli elementi. Se ciascuno di essi, dicevo a me stesso, potesse solamente essere riposto in identità separate, la vita sarebbe alleviata di tutto quanto ha d’insopportabile; l’ingiusto potrebbe andarsene per la sua strada, liberato dalle aspirazioni e dal rimorso del suo gemello più onesto; e il giusto potrebbe camminare tranquillo e sicuro per la sua strada elevata, compiendo il bene in cui trova il suo piacere, non più esposto alla vergogna e al pentimento a causa del male a lui estraneo. Era la maledizione del genere umano, il fatto che quei due elementi contrastanti fossero così legati insieme, che nel seno agonizzante della coscienza, questi due poli dovessero essere in continua lotta.
Come dissociarli allora?
Ero arrivato a questo punto nelle mie riflessioni, quando, come ho detto, una luce cominciò a brillare sull’argomento, dal mio tavolo di laboratorio. Cominciai a percepire più profondamente di quanto non sia mai stato affermato la tremante immaterialità, la mutevolezza simile a nebbia di questo corpo apparentemente tanto solido nel quale noi viviamo. Trovai che certi agenti avevano il potere di scuotere e di strappare questo rivestimento di carne, come il vento può strappare una tenda. Per due buone ragioni non m’inoltrerò profondamente in questo ramo scientifico della mia confessione. In primo luogo, perché ho imparato che il peso e il destino della nostra vita sono legati per sempre alle spalle dell’uomo, e, quando si tenta di disfarsene, ci ricadono addosso con maggiore e peggiore oppressione. In secondo luogo, perché, come la mia narrazione, ahimè, dimostrerà, le mie scoperte sono state incomplete. Basti dire che non solo io riconobbi il mio corpo naturale come una semplice emanazione e irradiazione di certi poteri del mio spirito, ma mi adoperai a comporre una sostanza con la quale tali poteri potessero essere annullati nella loro supremazia, e sostituiti da una seconda forma e da un secondo aspetto non meno naturali per me, perché offrivano l’espressione e portavano il marchio degli elementi più vili della mia anima.
Esitai a lungo prima di porre questa teoria alla prova della pratica. Sapevo bene di rischiare la morte; perché la droga che così potentemente controllava e scuoteva la fortezza dell’identità, avrebbe potuto, per una minima eccedenza nella dose, o un minimo inconveniente al momento della somministrazione, annullare del tutto quel tabernacolo immateriale che io con essa volevo trasformare.
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