«Se qualcuno può sapere qualcosa, è proprio Lanyon», pensava.
Il solenne maggiordomo lo conosceva, venne ricevuto cortesemente. Non dovette aspettare, fu subito introdotto nella sala da pranzo, dove il dottor Lanyon stava solo, davanti al suo bicchiere di vino. Era un uomo cordiale, dall’aspetto sano, vivace e colorito, con una ciocca di capelli precocemente bianca; i suoi modi erano chiassosi ed energici. Vedendo il signor Utterson si alzò prontamente, e gli si fece incontro tendendo le mani. A un osservatore, la cordialità di quell’uomo rischiava di apparire un poco teatrale, ma era fondata su un sentimento sincero. Infatti i due erano vecchi amici, compagni di scuola e di università, ambedue rigorosamente rispettosi uno dell’altro e di se stessi, e, cosa che non accade sovente, erano effettivamente felici di poter stare insieme.
Dopo una breve conversazione generica, l’avvocato affrontò l’argomento che occupava tanto spiacevolmente la sua mente.
«Credo, Lanyon,» disse, «che tu e io siamo i più vecchi amici di Henry Jekyll, no?»
«Vorrei che gli amici fossero più giovani,» disse argutamente il dottore. «Sì, credo che effettivamente lo siamo. Ebbene? Io lo vedo così poco, ora.»
«Davvero?» chiese Utterson. «Pensavo che aveste interessi in comune.»
«Ne avevamo,» fu la risposta, «ma da più di dieci anni Henry Jekyll è diventato troppo stravagante per me. Cominciò ad avere idee molto strane; e, sebbene naturalmente io continui a interessarmi a lui per la nostra vecchia amicizia, lo vedo molto poco ormai. Spropositi tanto poco scientifici» aggiunse il dottore, arrossendo improvvisamente, «avrebbero reso estranei tra loro anche Damone e Pizia3.»
Questo piccolo sfogo costituì un certo sollievo per il signor Utterson. «È stata una divergenza di vedute solo in materia scientifica», pensò; ed essendo uomo di scarsa passione studiosa (eccetto in materia di atti legali) aggiunse pure: «Nulla di più?» poi concesse all’amico qualche attimo per ricomporsi, e infine abbordò la questione per la quale si era recato lì: «Non avete mai incontrato un suo protetto, un certo Hyde?»
«Hyde?» ripeté Lanyon. «No. Non ne ho mai sentito parlare. Almeno, da quando lo conosco.»
Queste furono le sole informazioni che l’avvocato portò con sé, nel grande letto scuro, nel quale si agitò sinché non passarono le ore piccole e non fu giorno. Quella notte non arrecò molto ristoro alla sua mente preoccupata che si affaticò nel buio assoluto, assillata da tante domande.
Le campane della chiesa che era così opportunamente vicina alla casa del signor Utterson suonarono le sei, e lui era sempre immerso in quel problema. Esso lo aveva colpito, sinora, nel suo solo aspetto cerebrale; ma ora anche l’immaginazione vi era impegnata, o meglio asservita; e, mentre lui giaceva nel letto e si tormentava nell’oscurità della notte e della stanza velata da tende, la storia del signor Enfield gli ripassò davanti alla mente in una serie di immagini chiare. Gli pareva di vedere le lunghe file di lampioni nella città notturna; poi la figura di un uomo che camminava rapido; poi quella di una bimba che correva, venendo dalla casa del dottore; poi i due si scontravano, e quel demonio gettava in terra la bimba, e le passava sopra senza curarsi delle sue grida. Poi vedeva una stanza in una ricca casa, dove il suo amico giaceva addormentato, e sorrideva in sogno; la porta della stanza si apriva, le tende del letto venivano scostate, il dormiente destato, e… al suo fianco stava la figura di un uomo che aveva ogni potere, e, anche a quell’ora di notte, l’amico doveva alzarsi e obbedire ai comandi. Quella persona nelle sue due fasi perseguitò l’avvocato per tutta la notte; e, se costui si assopiva di tanto in tanto, era solo per vedere quell’individuo scivolare furtivamente attraverso case addormentate, o aggirarsi rapido, sempre più rapido, sino alla vertigine, per gli ampi labirinti della città illuminata dai lampioni e a ogni angolo di strada calpestare una bimba e abbandonarla a gridare. Eppure quella figura non aveva una faccia per la quale potesse conoscerla; anche nei sogni non aveva faccia, oppure aveva una faccia che lo scherniva, e si dissolveva davanti ai suoi occhi; e fu così che nacque e crebbe nella mente dell’avvocato una curiosità stranamente viva e quasi irresistibile di vedere i lineamenti del vero signor Hyde. Se avesse potuto anche solo una volta metter gli occhi su di lui, pensava che il mistero si sarebbe chiarito, e insieme dissolto, come accade per tutte le cose misteriose quando vengono bene esaminate. Avrebbe capito la ragione della strana predilezione del suo amico, o meglio della sua schiavitù (chiamatela come volete) e persino delle stupefacenti clausole del testamento. Comunque doveva essere una faccia interessante a vedersi: la faccia di un uomo senza alcuna pietà: una faccia a cui era bastato mostrarsi per sollevare nel cuore dell’impassibile Enfield un impulso di tenace odio.
Da allora il signor Utterson cominciò a tener d’occhio continuamente la porta nella strada dei negozi. La mattina, prima dell’ora d’ufficio; a mezzogiorno, quando c’era molto da fare e il tempo era contato; la sera, sotto la luna velata dalle nebbie cittadine: sotto qualsiasi luce e a qualsiasi ora, nella solitudine o nella folla, l’avvocato era visibile al suo posto. «Se lui è il signor Hyde, io sarò il signor Seek», pensava4.
Alla fine la sua pazienza venne ricompensata. Era una bella notte asciutta; gelo nell’aria, le strade pulite come il pavimento di una sala da ballo; i lampioni, non scossi dal vento, gettavano a intervalli regolari luce e ombra. Alle dieci di sera, con i negozi chiusi, la strada era molto solitaria, e, nonostante il brusio continuo di Londra che veniva dai dintorni, molto silenziosa. Si udivano così anche i più piccoli suoni; rumori domestici che provenivano dalle case, da una parte e dall’altra della strada; e l’avvicinarsi di un passante si preannunciava molto prima del suo apparire. Il signor Utterson era al suo posto da alcuni minuti, quando si accorse che un curioso passo leggero si stava avvicinando.
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