«E dirò che non assomiglia granché a una casa. Non esiste altra porta, e nessuno entra o esce da questa porta, se non, una volta ogni tanto, il signore della mia avventura. Ci sono tre finestre che guardano sul cortile, al primo piano; sotto, non ve ne sono; le finestre sono sempre chiuse, ma sono pulite. E poi c’è un camino che di solito fuma; perciò qualcuno deve abitare lì dentro. Tuttavia non è certo; perché gli edifici sono tanto stretti intorno a quel cortile, che è difficile stabilire ove uno cominci e l’altro finisca.»
I due uomini continuarono a camminare per un poco in silenzio, poi il signor Utterson disse: «Enfield, è una buona regola la vostra.»
«Sì, lo credo anch’io,» rispose il signor Enfield.
«Però,» continuò l’avvocato «c’è una cosa che io vorrei chiedervi: voglio domandarvi il nome di quell’uomo che calpestò la bambina.»
«Ebbene,» rispose il signor Enfield «non vedo che male potrebbe fare dirvelo. Si chiamava Hyde.»
«Hmm!» fece il signor Utterson. «E che specie di uomo era?»
«Non è facile a descriversi. C’è qualcosa di non chiaro nel suo aspetto; qualcosa di sgradevole, anzi di veramente detestabile. Non avevo mai visto un uomo che mi ripugnasse tanto, e non ne so la ragione. Doveva avere qualche deformità; dava l’impressione di essere deforme, sebbene io non riesca a specificare la cosa. Aveva un aspetto anormale, eppure non so dire precisamente in quale senso. No, signore; non posso descriverlo, non ci riesco. E non per mancanza di memoria; infatti, vi dico che mi sembra di vederlo anche in questo momento.»
Il signor Utterson fece ancora qualche passo in silenzio, evidentemente immerso in un suo pensiero.
«Siete sicuro che usasse una chiave?» chiese infine.
«Caro signore…» cominciò Enfield, molto sorpreso.
«Sì, capisco,» disse Utterson «intendo come vi possa apparire strano. Il fatto è che, se non vi domando il nome dell’altro, è perché lo conosco già. Vedete, Richard, la vostra storia mi riguarda un poco. Se siete stato inesatto in qualche punto, fareste meglio a correggervi.»
«Penso che avreste dovuto avvertirmi,» ribatté l’altro, leggermente contrariato. «Ma io sono stato scrupolosamente esatto. L’amico aveva una chiave; e, quello che più conta, l’ha ancora. L’ho visto usarla neppure una settimana fa.»
Il signor Utterson emise un profondo sospiro, ma non disse più nulla; e l’altro riprese: «Ecco un’altra lezione; non si deve dire mai nulla. Mi vergogno della mia lingua lunga. Facciamo il patto di non parlare più di questa faccenda.»
«Ben volentieri» disse l’avvocato. «Ecco la mia mano, Richard.»
II
ALLA RICERCA DEL SIGNOR HYDE
Quella sera, il signor Utterson tornò nella propria casa di scapolo, di umore cupo, e sedette a cena senza alcun piacere. La domenica aveva l’abitudine, terminata la cena, di sedere accanto al fuoco con qualche volume trattante aridi argomenti religiosi, sinché l’orologio della chiesa vicina non suonava la mezzanotte, ora alla quale l’avvocato se ne andava, tranquillo e soddisfatto, a letto. Quella sera, però, appena la tavola fu sparecchiata, prese una candela e si recò nel proprio studio. Qui aprì la cassaforte, trasse dallo scomparto più segreto un documento che recava scritto sulla busta: Testamento del Dottor Jekyll, e sedette con il viso rannuvolato a leggerne il contenuto. Il testamento era olografo, poiché il signor Utterson, sebbene avesse accettato di custodirlo quando il documento era stato redatto, s’era rifiutato di prestare la minima assistenza alla stesura; esso stabiliva non solo che, in caso di morte di Henry Jekyll, M.D., D.C.L., L.L.D., F.R.S.2, eccetera, tutti i suoi beni dovessero passare nelle mani del suo «amico e benefattore Edward Hyde», ma che in caso di «scomparsa o inspiegata assenza del dottor Jekyll per un periodo superiore a tre mesi, il suddetto Edward Hyde doveva immediatamente prendere il posto del detto Henry Jekyll, libero da qualsiasi peso e obbligo, tranne il pagamento di qualche piccola somma ai domestici del dottore».
Questo documento aveva costituito per lungo tempo una preoccupazione per l’avvocato. Lo offendeva come legale e come uomo amante dei lati sani e normali della vita, per il quale la fantasia era immoralità. Sino a quella sera, il non sapere nulla circa il signor Hyde aveva accresciuto la sua indignazione; ora, per un improvviso gioco della sorte, proprio l’avere appreso qualcosa lo indignava maggiormente. Era già stato abbastanza brutto che quel nome fosse soltanto un nome, del quale non poteva sapere nulla di più. Ma era peggio ora che quel nome cominciava a rivestirsi di detestabili attributi; e dalle vaghe e inconsistenti nebbie che avevano tanto a lungo velato gli occhi dell’avvocato balzava fuori l’improvviso, netto presentimento di qualcosa di diabolico.
«Pensavo si trattasse di una pazzia,» disse, riponendo il documento nella cassaforte, «ma ora comincio a temere si tratti di un’ignominia.»
Così dicendo, spense la candela, indossò il soprabito, e uscì nella direzione di Cavendish Square, quella cittadella della medicina dove il suo amico, il celebre dottor Lanyon, abitava e riceveva i suoi numerosi pazienti.
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