Robben Island: l’inizio della speranza.
Decima parte. Dialogo con il nemico.
Undicesima parte. La libertà.
Dedico questo libro ai miei sei figli, a Madiba e alla mia prima figlia Makaziwe, ormai scomparsi, e a Makgatho, Makaziwe, Zenani e Zindzi, il cui affetto e il cui sostegno mi sono stati e mi sono preziosi, ai miei ventuno nipoti e ai tre bisnipoti, che sono la mia gioia più grande; a tutti i compagni, amici e compatrioti che ho l’onore di servire e il cui coraggio, la cui determinazione e il cui patriottismo sono per me fonte perenne di ispirazione.
RINGRAZIAMENTI.
Come i lettori potranno vedere, questo libro ha una lunga storia. Cominciai a scriverlo di nascosto nel 1974, durante la mia detenzione a Robben Island. Senza l’instancabile contributo dei miei vecchi compagni Walter Sisulu e Ahmed Kathrada nel risvegliare i miei ricordi, dubito che il manoscritto sarebbe mai stato ultimato.
La copia rimasta in mio possesso fu scoperta e confiscata dalle autorità carcerarie, tuttavia i miei compagni di prigionia Mac Maharaj e Isu Chiba, oltre a fornire la loro insostituibile opera di copisti, si assicurarono che l’originale giungesse a destinazione. Ricominciai a lavorarvi nel 1990, dopo essere stato scarcerato.
Da allora, il mio tempo è stato assorbito da innumerevoli responsabilità e impegni, e me ne è rimasto ben poco da dedicare alla scrittura. Fortunatamente, i miei fedeli colleghi, amici e collaboratori mi hanno aiutato a portarlo finalmente a termine, e ad essi vorrei esprimere il mio apprezzamento.
Sono molto riconoscente a Richard Stengel, che ha collaborato alla realizzazione di quest’opera, fornendomi preziosa assistenza nella redazione e nella revisione delle prime parti e nella stesura di quelle finali. Ricordo con vivo piacere le nostre passeggiate mattutine nel Transkei e i lunghi colloqui alla Shell House di Johannesburg e nella mia casa di Houghton. Uno speciale tributo va a Mary Pfaff, che ha assistito Richard nel suo lavoro. Molto validi sono stati anche i consigli e l’incoraggiamento di Fatima Meer, Peter Magubane, Nadine Gordimer e Ezekiel Mphahlele.
Un particolare ringraziamento al mio compagno Ahmed Kathrada per le molte ore da lui dedicate a rivedere, correggere e mettere a punto questa narrazione. Ringrazio anche il personale dell’A.N.C. del mio ufficio, per la grande pazienza con cui si è occupato degli aspetti organizzativi, e in particolare Barbara Masekela per l’efficiente opera di coordinamento e Iqbal Meer per il molto tempo dedicato al lato economico del libro.
Sono grato al curatore, William Phillips di Little, Brown, che ha diretto questa iniziativa sin dal 1990 e ha preparato il testo per la stampa, e ai suoi colleghi Jordan Pavlin, Steve Schneider, Mike Mattil e Donna Peterson.
Vorrei infine ringraziare la professoressa Gail Gerhart per la meticolosa revisione del manoscritto.
Prima parte.
UN’INFANZIA NEL VELD.
1.
Oltre alla vita, a un fisico robusto, e a un antico legame con la casa reale thembu, l’unica cosa che mio padre mi ha conferito alla nascita è stato un nome: Rolihlahla. In xhosa Rolihlahla significa letteralmente «che tira il ramo di un albero», ma il suo significato colloquiale potrebbe esser reso più felicemente con
«attaccabrighe». Non credo che il nome rappresenti il destino di una persona, né che mio padre abbia in qualche modo divinato il mio futuro, ma negli anni a venire amici e parenti ebbero spesso ad ascrivere al mio nome i non pochi scompigli che ho causato o ai quali sono riuscito a scampare. Il nome inglese, o cristiano, più conosciuto mi fu attribuito solo il primo giorno di scuola.
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