Il bianco simboleggiava la purezza; ricordo ancora il senso di rigidezza che dava l’argilla secca sul mio corpo.

Quella prima notte, a mezzanotte, un aiutante, o “ikhankatha”, venne da noi nella capanna svegliandoci dolcemente. Poi fummo fatti uscire all’aperto e mandati nella notte a seppellire i prepuzi. Tradizionalmente la ragione di questa pratica era quella di nasconderli prima che qualche mago potesse impadronirsene per usarli a scopi malvagi; ma simbolicamente concludevamo una fase della vita, seppellivamo le ultime vestigia dell’infanzia. Non avevo nessuna voglia di lasciare il tepore della capanna per aggirarmi nel buio della campagna, ma mi diressi fra gli alberi e, dopo qualche minuto, slegai il prepuzio e lo seppellii nella terra. Mi sentivo come se avessi gettato via quanto restava della mia fanciullezza.

Trascorremmo un periodo nelle nostre due capanne - ognuna ospitava tredici ragazzi - in attesa di guarire dalle ferite. Quando uscivamo eravamo sempre avvolti nelle coperte, perché non dovevamo essere visti dalle donne. Ci concedevamo una pausa di quiete, una sorta di preparazione spirituale per le prove che ci attendevano nel mondo degli uomini. Il giorno in cui uscimmo dal ritiro scendemmo al fiume la mattina presto per toglierci di dosso l’ocra bianca nelle acque del fiume Mbashe. Quando fummo puliti e asciutti, ci vennero a spalmare di ocra rossa. La tradizione voleva che poi si andasse a letto con una donna - che in seguito poteva diventare una moglie - la quale avrebbe cancellato il pigmento col suo corpo. Nel mio caso, tuttavia, il pigmento fu rimosso con una miscela di grasso e lardo.

Alla conclusione del ritiro, e a rappresentare la recisione degli ultimi legami con l’infanzia, gli alloggi e il loro contenuto vennero bruciati, mentre una grande cerimonia veniva celebrata per darci il benvenuto nella comunità in quanto uomini. I famigliari, gli amici, i capi locali si riunirono attorno a noi per discorrere, per cantare, per presentare doni. A me regalarono due giovenche e quattro pecore: mai ero stato così ricco in vita mia. Io che non avevo mai posseduto niente, a un tratto avevo delle proprietà. Era una sensazione inebriante, anche se i miei possessi erano poca cosa in confronto a quelli di Justice, al quale avevano regalato un intero gregge. Non invidiavo i doni di Justice: lui era figlio di re, io ero destinato a essere semplicemente un consigliere di re. Mi sentivo forte e fiero, quel giorno. Ricordo che persino camminavo in modo diverso: con un portamento più eretto, più deciso, più saldo. Ero pieno di speranze, pensavo che un giorno avrei conquistato beni, ricchezze, posizione sociale.

Oratore principale della giornata era il capo Meligqili, figlio di Dalindyebo, e dopo averlo ascoltato i miei fulgidi sogni divennero immediatamente più cupi. Meligqili cominciò nel modo convenzionale, dicendo che era bello trovarsi riuniti per continuare una tradizione che esisteva da tempo immemorabile. Poi si voltò verso di noi, e il suo tono cambiò bruscamente: «Qui,» disse, «siedono i nostri figli: giovani, sani, belli, il fiore della tribù xhosa, l’orgoglio della nostra nazione. Da poco li abbiamo circoncisi, con un rito che promette di introdurli nel mondo degli uomini; io sono qui a dirvi che questa è una promessa vuota, vana, una promessa che non potrà mai essere mantenuta. Perché noi xhosa, e tutti i sudafricani neri, siamo un popolo conquistato.

Noi siamo schiavi nel nostro paese, siamo inquilini sul nostro suolo. Non abbiamo la forza, non abbiamo il potere, non abbiamo il controllo del nostro destino nella terra sulla quale siamo nati. Questi figli andranno nelle città, a vivere nelle baracche e a bere alcool di qualità scadente, perché noi non possiamo offrire loro una terra sulla quale vivere e prosperare.