Tirarsi indietro o gridare erano segni di debolezza e avrebbero segnato tutta la vita adulta: da parte mia ero ben deciso a tenere alto il mio onore, l’onore del mio gruppo e del mio tutore. La circoncisione è una prova di coraggio e di stoicismo; non si usano anestetici, un uomo deve soffrire in silenzio.

Sulla destra, con la coda dell’occhio, vidi un uomo magro e anziano uscire da una tenda e inginocchiarsi davanti al primo ragazzo. Tra la folla serpeggiò agitazione, e io rabbrividii leggermente comprendendo che il rito stava per iniziare. Il vecchio era un famoso “ingcibi”, un esperto circoncisore del Gcalekaland che con un netto colpo di zagaglia avrebbe trasformato ciascuno di noi giovani in uomini.

Come ci avevano insegnato negli esercizi preparatori, a un tratto udii lanciare il primo grido: «Ndiyindoda!»

(«Sono un uomo!»). Pochi secondi dopo udii la voce di Justice proferire lo stesso grido con voce strozzata.

Prima di me c’erano ancora due ragazzi, ma il mio cervello a un certo punto dev’essersi fermato perché quando ritrovai la coscienza di dov’ero l‘“ingcibi” si stava inginocchiando davanti a me. Lo guardai dritto negli occhi. Il suo viso era pallido, e per quanto la giornata fosse fredda, riluceva di sudore. Le mani si muovevano così velocemente da sembrare guidate da una forza sovrumana. Senza dire una parola mi prese il prepuzio, lo trasse verso di sé e, con un unico movimento, calò la zagaglia. Mi parve che del fuoco mi si riversasse nelle vene; il dolore fu così forte che affondai il mento nel petto. Molti secondi dovettero passare prima che mi ricordassi del grido, poi finalmente mi ripresi e gridai: «Ndiyindoda!». Guardai in giù e vidi un taglio perfetto, nitido e rotondo come un anello. Ma provavo vergogna perché gli altri mi apparivano più saldi e più forti, avevano gridato più prontamente di me. Mi dispiaceva che il dolore mi avesse, sia pure brevemente, prostrato e facevo il possibile per mascherare la mia sofferenza. Un ragazzo può piangere, un uomo nasconde la sua pena.

Avevo così compiuto il passaggio fondamentale della vita di ogni xhosa. Ora potevo sposarmi, metter su casa e lavorare il mio campo. Potevo essere ammesso nei consigli della comunità; le mie parole sarebbero state seriamente considerate. Durante la cerimonia mi fu dato il nome di circoncisione Dalibungha, che significa

«fondatore del Bungha», il corpo delle leggi tradizionali del Transkei. I tradizionalisti xhosa adottano più volentieri questo nome che non i miei due precedenti - Rolihlahla e Nelson - quindi, con mia grande soddisfazione, lo sentivo pronunciare di frequente: Dalibungha. Ricordo che al momento del rito, quando il taglio veniva inferto, un uomo che seguiva il maestro circoncisore raccoglieva i prepuzi caduti sul terreno e li assicurava a un angolo delle nostre coperte. Poi la ferita veniva fasciata con una pianta medicamentosa che ha foglie lisce all’interno e spinose all’esterno, e che ha la facoltà di assorbire il sangue e le altre secrezioni.

Alla fine della cerimonia ritornammo alle nostre capanne, dove un fuoco alimentato con legna bagnata ardeva diffondendo nuvole di fumo, cosa che si riteneva propizia per la guarigione. Fummo messi a giacere sul dorso nelle capanne fumose, con una gamba tesa e una piegata. Ora eravamo “abakhwetha”, iniziati al mondo degli uomini. Si curava di noi un “amakhantkatha”, o guardiano, che spiegava le regole da seguire per entrare appropriatamente nell’età adulta. Il primo compito dell‘“amakhantkatha” era quello di spalmare interamente di ocra bianca i nostri corpi nudi e rasati, facendoci sembrare degli spettri.