Erano ricchi, i miei padroni: ricco è questo padrone qui, Dio lo consoli, ma ricchi erano anche quelli: avevano persino la fontana d’acqua dolce in casa; e denari e argenteria e reliquie come in una chiesa: persino nell’entrata della casa, in una cassa, c’era danaro; le monete di rame, in un canestro come le fave. Ora io non ti so dire bene com’è 22
accaduto; ma una sera ecco, una sera di festa, il padrone tornò a casa, col suo bastone, e si mise a letto senza cenare; forse aveva bevuto: in coscienza mia non lo posso affermare, ma forse aveva bevuto. Noi donne stavamo in cucina; il servo dava da mangiare ai cavalli quando ecco lo vedemmo entrare con gli occhi grandi spaventati gridando: “Madre mia, padrona mia, che paura! Che paura!” e subito fuggì su per una scaletta a piuoli che dava in un soppalco sopra la cucina: e io dietro di lui, coi capelli dritti per il terrore, sebbene non sapessi di che si trattava. Ed egli fu svelto a tirar su la scaletta, e l’appoggiò al muro, salì, sfondò il tetto e sparve. Io ero caduta sul soppalco, e da una fessura vedevo la cosa orribile che succedeva in cucina: un mucchio di uomini mascherati, che sembravano orchi, vi si era precipitato, e tre di essi avevano preso la mia padrona e uno di essi aveva una scure! Gli altri andarono subito nell’andito e di là salirono nelle camere di sopra: si sentivano i loro passi come quelli di demoni sfrenati usciti dall’inferno. Hai capito che era una banda di grassatori? Erano molti, forse trenta, forse più: il servo, sul tetto, gridava chiamando aiuto, ma nessuno osava mostrarsi per paura di buscarsi una fucilata dai malfattori. In pochi minuti essi uccisero il padrone, presero tutte le cose preziose; e non erano contenti: quello che aveva la scure e i due altri conducevano qua e là la padrona, trascinandola come morta, perché indicasse loro i nascondigli del denaro. Di fuori risuonarono due fucilate; erano i vicini di casa che cercavano di spaventare i grassatori; ma alcuni di questi, rimasti a guardia nel cortile, gridavano a quelli di dentro: “coraggio e avanti!” e tutta la casa era sottosopra come per il terremoto. Io vidi quei tre ricondurre la padrona in cucina: ella trascinava i piedi per terra come due stracci e aveva il viso bianco tutto storto per il terrore. Le davano pugni alle spalle, la minacciavano con la scure, perché non aveva saputo indicare i nascondigli: poi la spogliarono: le trovarono addosso, cuciti al corsetto, due biglietti da mille lire l’uno e parvero placarsi. Lei balbettava: “abbiate cuore buono, pensate a vostra madre!…” e loro ripetevano: “ancora un altro poco: ci dirai dov’è il danaro, se no ti metteremo a sedere nuda sul trepiede infocato…”. E uno infatti mise a infocare il trepiede; ma altre fucilate risuonarono fuori e d’un tratto tutti fuggirono; anche la mia padrona, vedendosi sola, scappò: io rimasi lassù tutta la notte; mi nascosi tra fasci di canne che stavano nel soppalco e ancora a volte mi sembra di essere là, di sentire i passi dei malfattori, di morire soffocata. Dopo quella notte, per lo spavento, cessai di essere donna.»
Questa conclusione divertiva molto Marianna e la faceva ridere, con la gola ancora chiusa dal terrore. Le pareva di vedere Fidela nascosta tra i fasci di canne, nel soppalco, balzar fuori e d’un tratto da ragazza mutarsi in ragazzo; e ogni volta aspettava la fine della storia con ansia, palpitando di paura e di pietà, e tuttavia mordendosi le labbra, per non ridere prima del tempo.
«Dopo sono stata serva del canonico, che era venuto lassù parroco; saranno venti o venticinque anni, e quando egli ritornò a Nuoro venni con lui. A dire la verità, sempre le cose sono andate bene: solo una volta ci hanno rubato una gallina, ma dev’essere stata Maria Conzu la vicina di casa. A dire la verità, Nuoro non è un paesetto ove possa succedere una grassazione, con tanta forza che c’è: e i tempi sono cambiati: ma i malfattori esistono sempre e fidarsi non bisogna.»
Marianna però non badava a queste considerazioni: spingeva i piedini sul ventre duro della donna, e insisteva sollevando il viso dal guanciale:
«Com’è che siete diventata ragazzo? Perché siete diventata ragazzo? Perché spaccate la legna col ginocchio? Perché levate i chiodi coi denti? Su, rispondete! Allora siete un servo, non una serva! Su, rispondete! A dire la verità…».
«Sì, a dir la verità, avrei preferito essere un servo maschio.»
Allora il riso soffocato di Marianna riempiva di gioia l’ombra misteriosa della soffitta.
Poi ricominciavano i racconti.
A tanti anni di distanza, Fidela non cambiava parere. Mentre Marianna si indugiava nel cortile, verso sera, sotto l’ombra del pergolato nero sul cielo di rosa, eccola a inchiodare un’asse del portone spaccatasi un poco al calore del sole di giugno.
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Marianna le aveva dato i chiodi, poi s’era seduta nella penombra e guardava di tratto in tratto la luna nuova che tramontava languida come un occhio socchiuso nella voluttà: e pensando al suo segreto aveva negli occhi qualcosa della dolcezza lunare. Ma la presenza della serva la infastidiva: di giorno in giorno, di ora in ora, il problema si riaffacciava sempre più urgente al suo pensiero.
Se Simone arrivava?
Come riceverlo? Come evitare la vigilanza della guardiana del suo carcere?
C’era tempo ancora; ma ella aspettava e aspettava, e nel silenzio le sembrava di sentire il passo di lui che si avvicinava sempre più.
I suoi giorni erano diventati un solo sogno di attesa: aspettava con ansia anche il ritorno del padre, la visita di Sebastiano, i giorni di festa per poter andare alla messa e respirare accanto alle sorelle di Simone: tutto era buono purché le portasse qualche cosa di lui.
Quando Fidela, finito d’inchiodare l’asse, si ritirò, ella s’alzò ed andò a riaprire cauta, sporgendosi a guardare di qua e di là della strada. Era un sabato sera e forse almeno il servo sarebbe tornato dalla Serra: ma il crepuscolo s’addensava, anche le rondini si ritiravano silenziose solcando un’ultima volta il cielo rosso sopra le case nere, e nessuno arrivava. Al di là della strada deserta sopra le torri rossastre della chiesa una nuvola rossa si incurvava come un arco di fuoco; tutto era nero e sanguigno, tutto ardeva di una fiamma misteriosa che l’ombra a poco a poco spegneva: e i canti corali dei giovani amanti paesani riempivano l’aria di passione nostalgica. Ella appoggiò la tempia allo stipite del portone pensando che il suo amante non poteva cantare per lei sotto la sua finestra. Come erano lontani! Lontani come alle due estremità della terra; tanto lontani che, a pensarci bene, pareva ch’egli non esistesse neppure… Ma ecco, a pensarci meglio, il cuore le si gonfiava per la stessa disperazione: e il passo di Simone le risuonava ben dentro, mentre dalla profondità del suo cuore era la voce di lui che cantava riempiendo la sera dei gridi d’amore.
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