Maschera bianca

EDGAR WALLACE

MASCHERA BIANCA

(White Face, 1930)

Prefazione

«Mike Quigley aveva una profonda conoscenza dell’umanità perversa.

Aveva avuto occasione di avvicinare ogni sorta di ladri, truffatori della ca-tegoria migliore, falsari astuti e ingenui svaligiatori di banche, venditori di fumo e borsaioli. Non conosceva però Maschera Bianca, poiché nessuno lo conosceva…»

Lo conosceremo invece noi, anzi lo smaschereremo, leggendo questo White Face, un libro scritto nel 1930 quando l’autore aveva ormai al suo attivo più di un centinaio di romanzi, che racchiude in sé tutte le componenti della produzione wallaciana, gli ingredienti che concorrono a formare lo stile personalissimo che ancor oggi distingue questo straordinario scrittore inglese da tutti gli altri autori di narrativa poliziesca.

In realtà l’opera di Wallace non può essere collocata in nessuna delle due

“scuole” che si sono individuate nella letteratura gialla. I suoi romanzi, infatti, non seguono lo schema della detective story classica: quella, per in-tenderci, che, nata negli anni ‘20 - o come sostengono alcuni nel 1913 con il romanzo di E. C. Bentley La vedova del miliardario (Trent’s last case) -

troverà il suo momento di maggior splendore tra il 1925 e il 1940 con le prime storie di Agatha Christie e le opere di S.S. Van Dine; e sono anche assai diversi dai cosiddetti “gialli d’azione”, all’americana, nei quali, sulla scia di Dashiell Hammett, l’indiscusso fondatore della “scuola dei duri” (il suo primo libro, Il falcone maltese (The Maltese Falcon) è del 1930), la vicenda si svolge in un clima di spietata violenza e la forte caratterizzazione dei personaggi e degli ambienti fa passare in secondo piano lo intreccio de-littuoso che, almeno dal punto di vista della rigorosa e logica costruzione, viene spesso a mancare.

Nei gialli classici, in qualunque epoca siano stati scritti, il mistero, l’enigma, il congegno perfetto, hanno una importanza fondamentale nell’economia del racconto che, quindi, si sviluppa in un’unica direzione senza che il lettore venga distratto da altri avvenimenti sensazionali “a margine” della vicenda. Nei polizieschi all’americana, invece, il gusto per il meccanismo di precisione, per il delitto perfetto, si è venuto progressivamente at-tenuando sino a scomparire del tutto per lasciare il posto a trame più attuali nelle quali si avverte costantemente la preoccupazione dell’autore di aderi-re alla realtà di tutti i giorni, nei personaggi e nelle situazioni. Questo spiega perché si incontri sempre più di rado l‘“avventura”, intesa nel suo significato più pieno di coinvolgimento in avvenimenti imprevisti, spettacolari, inverosimili. (Ma le eccezioni non mancano: si pensi a James Bond).

Nei romanzi di Wallace le componenti essenziali sono sempre due: il mistero e l’avventura, ma non in funzione alternativa, bensì - e in questo consiste l’originalità di questo scrittore - in funzione di reciproca comple-mentarietà, secondo una formula fissa che verrà ripresa in tutta la sua produzione.

Seguendo questo schema, il celebre autore in ventisette anni di attività scrisse circa 150 romanzi, centinaia di racconti e numerose sceneggiature cinematografiche e teatrali: un record difficilmente eguagliabile. Abbiamo usato la parola “scrisse”, ma dobbiamo subito avvertire che in realtà Wallace scriveva ben poco, perché “dettava” a un dittafono la stragrande maggioranza dei suoi libri; agli altri, cioè alla moglie e a un abilissimo dattilo-grafo, il compito di trasformare in un dattiloscritto quel fiume di parole che lui, nei suoi improvvisi momenti di ispirazione aveva furiosamente re-gistrato. Nelle giornate di vena iniziava a lavorare verso le 5 o le 6 del mattino e andava avanti per ore e ore senza il minimo sforzo; le uniche co-se di cui non poteva fare a meno erano una sedie girevole, una grande scrivania, la sua vestaglia (Wallace detestava lavorare in giacca e cravatta), sigarette in quantità e, soprattutto, del tè di cui era golosissimo (con un po’ di latte e molto zucchero): ne beveva in media una tazza ogni mezz’ora.

«Il sistema usato da Wallace per scrivere una storia sensazionale» racconta la nuora dello scrittore, Margaret Lane, nella sua interessantissima

“Biografia di un fenomeno” (Edgar Wallace - A biography of a phenome-non, 1938) «era quasi sempre lo stesso. Prima di cominciare a dettare, egli aveva già costruito nella sua mente il nudo scheletro della storia, una scelta di personaggi e, più importante di tutto, il finale a sorpresa. Stabilita così l’idea fondamentale, deciso quale doveva essere il mistero principale e la sua soluzione, e le principali situazioni drammatiche a cui intendeva giungere, lo sviluppo della trama era un enigma per lui non meno che per il lettore. Non prendeva appunti, se non si tiene conto di una lista con i nomi dei personaggi, e intesseva il complicato intrigo man mano che andava avanti. A volte gli avvenimenti prendevano una piega inaspettata sviandolo

- a causa di quale episodio incidentale - dal progetto originale, ma queste deviazioni non lo disturbavano ed egli non faceva alcun tentativo per evi-tarle. Cercava anzi di trarre il maggior vantaggio possibile dalla nuova situazione e l’intreccio si muoveva su questa traccia diversa verso la destinazione prestabilita. Le sue pubblicazioni a puntate procedevano più o meno allo stesso modo: raramente da una puntata all’altra egli sapeva che cosa sarebbe accaduto e come avrebbe fatto muovere i suoi personaggi nel successivo capitolo. …A differenza di molti scrittori di questo genere che con-sacrano gli ultimi due o tre capitoli a sbrogliare la matassa, Edgar poneva e risolveva continuamente nuovi problemi, lasciando insoluto sino alla fine solo il mistero fondamentale.»

Era un metodo di lavoro a dir poco insolito, ma che spiega perfettamente quelle piccole discrepanze, quelle dimenticanze, quegli impercettibili erro-ri che ogni tanto affiorano qua e là nelle storie dello scrittore inglese, ma che non davano alcuna preoccupazione al nostro autore il quale, una volta terminata la dettatura del romanzo, considerava finito il suo lavoro, di cui poi si disinteressava completamente. Wallace era infatti incredibilmente pigro: si vantava, per esempio, di percorrere a piedi non più di quattro chilometri all’anno, e ligio al principio di fare il minor sforzo fisico possibile, prendeva un taxi anche se doveva percorrere solo cento metri e si serviva sempre dell’ascensore nonostante il suo studio si trovasse appena al primo piano.

Questa pigrizia, comunque, non gli impediva di scrivere delle storie nelle quali il ritmo incalzante e i colpi di scena a non finire avevano un ruolo di primaria importanza, certo pari a quello di alcuni personaggi-chiave ide-ati, anch’essi, secondo una formula ben definita: l’investigatore (acuto, sot-tile, simpatico, spesso un giornalista e quasi sempre innamorato); il “genio del male”, naturalmente sotto mentite spoglie; il ladruncolo da strapazzo, che non sempre si ricollega al mistero principale ma serve come diversivo e per dare maggior risalto alla figura del vero criminale; l’eroina.

Maschera Bianca, Il Mago, I Giusti, Il Furbo, Jack il Giustiziere, e tanti altri ancora; quante volte il lettore si è trovato avvinto e quasi intimorito nel leggere le gesta di questi eroi temerari, di questi personaggi quasi in-vincibili nelle loro spavalde macchinazioni, nelle loro ardite peripezie, nelle loro tremende vendette. E poi, dall’altra parte, il personaggio femminile; chi non si innamorerebbe delle eroine di Wallace, tutte dolcezza, dignità, tenerezza e splendore, così sole e sperdute in situazioni più grandi di loro?

Sarebbe impossibile resistere a un simile fascino, e infatti l’eroe di turno (giornalista, o investigatore, o finto furfante, non importa) non può che ca-pitolare di fronte agli occhi tristi e malinconici di queste meravigliose crea-ture, e il lieto fine è di obbligo nel trionfo dei buoni e dell’amore e nella sconfitta del cattivo.

Questo lo schema; ma dentro questi confini - piuttosto rigidi, se vogliamo - la fantasia di Edgar Wallace si sbizzarriva nella creazione di avvenimenti sempre diversi, di episodi sempre nuovi, di trovate una più brillante dell’altra, con una varietà di idee che gli permetteva di destreggiarsi con la massima facilità sia quando decideva di scrivere romanzi soprattutto d’avventura, sia quando, viceversa, creava un vero e proprio libro giallo con un finale non solo sorprendente dal punto di vista della spettacolarità, ma anche dal punto di vista della “macchinazione” criminale, del meccanismo di precisione; non per niente uno dei migliori “delitti nella camera chiusa” è proprio un romanzo di Edgar Wallace: “L’enigma dello spillo” ( The clue of the new pin, 1923) e il famosissimo “I Quattro Giusti” ( The Four Just Men,

1905) può essere senz’altro catalogato tra i migliori gialli classici che siano mai stati scritti.

Maschera Bianca è, lo dicevamo all’inizio, un libro che raccoglie un po’

tutte le caratteristiche dei romanzi di Wallace; solo l’intreccio amoroso è un po’ sacrificato (anche se l’idillio, a stretto rigore, c’è) mentre è presente in modo particolare l’aspetto poliziesco, con il suo bravo delitto e con un finale davvero sorprendente e ben congegnato.