Al lettore il compito di cercare di indovinare chi è il colpevole prima che lo scrittore ce lo riveli con la sua consueta abilità: la possibilità di scoprire l’assassino prima della fine c’è anche se, naturalmente, l’autore ha fatto di tutto per imbrogliare le carte e c’è indubbiamente riuscito molto bene. A questo proposito ricordiamo che Wallace era particolarmente orgoglioso delle sue trovate: in occasione della pubblicazione de “I Quattro Giusti”, il suo primo romanzo, giunse addirittura a offrire dei premi a chi avesse inviato la esatta soluzione del mistero: in tutto 500 sterline (ed eravamo nel 1905!) di cui 250 al vincitore. Il libro, poi, era stato rilegato in un modo del tutto particolare: una pagina, staccabile, era stata lasciata in bianco per permettere ai lettori di scriverci sopra la soluzione.

Stando a quanto ci racconta Margaret le risposte esatte non mancarono e i premi messi in palio furono tutti assegnati. Riuscire quindi a svelare il mistero prima della fine non era un’impresa impossibile, e anche in questo Maschera Bianca gli elementi per scoprire chi è l’assassino ci sono tutti.

Occorrerà solo - e ve lo diciamo con il senno di poi - fare molta attenzione.

Marco Polillo

I

Michael Quigley aveva una profonda conoscenza dell’umanità perversa.

Aveva avuto occasione di avvicinare ogni sorta di ladri, truffatori della ca-tegoria migliore, falsari astuti ed ingenui svaligiatori di banche, venditori di fumo e borsaioli. Non conosceva però Maschera Bianca, poiché nessuno lo conosceva; ma considerava soltanto rimandato il piacere di quella conoscenza. Presto o tardi il bandito solitario avrebbe commesso un errore e sarebbe caduto sotto la giurisdizione del cronista specializzato in materia criminale.

Michael conosceva quasi tutti a Scotland Yard. Aveva passato qualche giorno di vacanza con Dumont, il carnefice, e lo aveva soccorso durante un attacco di delirium tremens. Le pareti della sua camera erano tappezzate di fotografie con dediche di sovrani, di campioni di pugilato e di celebri attri-ci. Era un profondo psicologo e sapeva come le persone normali od anor-mali potevano comportarsi in ogni situazione. Però, nonostante la sua esperienza, si trovava disorientato nel caso di Janice Harman, per quanto avesse già sentito parlare di casi analoghi.

Capiva benissimo come una ragazza, senza alcuna responsabilità, orfana, e con tremila sterline di rendita annua, desiderasse fare qualche cosa di utile nella vita ed avesse scelto, per questo, il lavoro di infermiera in una clinica dell’East End; altre ragazze avevano dimostrato il loro amore per il prossimo con una simile abnegazione e Janice differiva dalle altre soltanto per il fatto che non si era ancora stancata della filantropia.

Era molto attraente, per quanto il giovane non fosse mai riuscito ad analizzare quali fossero in lei le qualità che esercitavano il maggior fascino.

Aveva occhi dolcissimi, la bocca rossa e sensuale… o forse era la sua pelle di porcellana che dava una maggior grazia al suo volto? Di questo, Michael non era certo… l’unica cosa di cui era veramente sicuro era che avrebbe potuto stare a contemplarla per ore ed ore, e desiderare di poterla contem-plare per tutta la vita.

Vi era in lei un atteggiamento che lo metteva a disagio: una certa aria di materna protezione. Sembrava che tra i ventitré anni di lei ed i ventisette di lui vi fosse un abisso insormontabile. Janice sosteneva infatti che una donna di ventitré anni ha almeno vent’anni di più di un uomo della stessa età.

Una sera gli disse qualche cosa che lo piombò in uno stato di profonda disperazione. Quel giorno Michael aveva riscosso lo stipendio, e l’aveva condotta a cena al Howdah Club.

Egli sapeva, naturalmente, del romantico corrispondente di Janice. Ne aveva riso, dapprima, poi aveva cominciato ad allarmarsi. La corrispondenza si era iniziata nel modo più innocente. Un giorno a Janice era perve-nuta una lettera, al suo appartamento di Bury Street, in cui lo scrivente la pregava di metterlo in contatto con la sua vecchia nutrice, che doveva trovarsi in difficoltà. Questo accadeva pochi mesi dopo l’inizio del lavoro alla clinica del dottor Marford ed un quotidiano aveva pubblicato un lungo ar-ticolo in cui si parlava della «giovane e ricca signorina della buona socie-tà» che aveva dedicato la sua vita a opere di bene. La lettera proveniva dal Sud Africa e conteneva cinque sterline; lo scrivente la pregava di conse-gnarle alla vecchia nutrice, se l’avesse trovata, o in caso contrario, come offerta ai fondi della clinica.

«È sicura che quell’individuo non tenti una truffa all’americana?» aveva domandato Michael.