MASTRO DON GESUALDO

MASTRO DON GESUALDO

di Giovanni Verga.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

    INDICE.

 

    Parte prima: pagina 3.

    Parte seconda: pagina 185.

    Parte terza: pagina 301.

    Parte quarta: pagina 388.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

    PARTE PRIMA.

 

    1.

 

    Suonava la messa dell'alba a San  Giovanni;  ma  il  paesetto  dormiva

    ancora della grossa,  perché era piovuto da tre giorni, e nei seminati

    ci si affondava fino a mezza gamba.  Tutt'a un tratto,  nel  silenzio,

    s'udì un rovinìo,  la campanella squillante di Sant'Agata che chiamava

    aiuto, usci e finestre che sbattevano,  la gente che scappava fuori in

    camicia, gridando:

    - Terremoto! San Gregorio Magno!

    Era ancora buio. Lontano, nell'ampia distesa nera dell'Alìa, ammiccava

    soltanto un lume di carbonai,  e più a sinistra la stella del mattino,

    sopra un nuvolone basso che tagliava l'alba nel  lungo  altipiano  del

    Paradiso.  Per  tutta la campagna diffondevasi un uggiolare lugubre di

    cani.  E subito,  dal quartiere  basso,  giunse  il  suono  grave  del

    campanone di San Giovanni che dava l'allarme anch'esso; poi la campana

    fessa di San Vito;  l'altra della chiesa madre, più lontano; quella di

    Sant'Agata che parve addirittura cascar sul capo agli  abitanti  della

    piazzetta.  Una  dopo l'altra s'erano svegliate pure le campanelle dei

    monasteri, il Collegio, Santa Maria, San Sebastiano, Santa Teresa: uno

    scampanìo generale che correva sui tetti spaventato, nelle tenebre.

    - No!  no!  E' il  fuoco!...  Fuoco  in  casa  Trao!...  San  Giovanni

    Battista!

    Gli  uomini  accorrevano  vociando,  colle  brache  in mano.  Le donne

    mettevano il lume alla finestra: tutto il paese,  sulla  collina,  che

    formicolava di lumi, come fosse il giovedì sera, quando suonano le due

    ore  di notte: una cosa da far rizzare i capelli in testa,  chi avesse

    visto da lontano.

    - Don Diego!  Don Ferdinando!  -  si  udiva  chiamare  in  fondo  alla

    piazzetta; e uno che bussava al portone con un sasso.

    Dalla salita verso la Piazza Grande, e dagli altri vicoletti, arrivava

    sempre    gente:    un   calpestìo   continuo   di   scarponi   grossi

    sull'acciottolato;  di tanto in tanto un nome gridato  da  lontano;  e

    insieme  quel bussare insistente al portone in fondo alla piazzetta di

    Sant'Agata, e quella voce che chiamava:

    - Don Diego! Don Ferdinando! Che siete tutti morti?

    Dal palazzo dei Trao, al di sopra del cornicione sdentato, si vedevano

    salire infatti,  nell'alba che cominciava a schiarire,  globi di  fumo

    denso,  a ondate,  sparsi di faville. E pioveva dall'alto un riverbero

    rossastro,  che accendeva le facce ansiose dei vicini raccolti dinanzi

    al  portone  sconquassato,  col naso in aria.  Tutt'a un tratto si udì

    sbatacchiare una finestra,  e una  vocetta  stridula  che  gridava  di

    lassù:

    - Aiuto!... ladri!... Cristiani, aiuto!

    - Il fuoco! Avete il fuoco in casa! Aprite, don Ferdinando!

    - Diego! Diego!

    Dietro  alla  faccia  stralunata di don Ferdinando Trao apparve allora

    alla  finestra  il  berretto  da  notte  sudicio  e  i  capelli  grigi

    svolazzanti  di  don  Diego.  Si  udì  la  voce  rauca  del tisico che

    strillava anch'esso:

    - Aiuto!... Abbiamo i ladri in casa! Aiuto!

    - Ma che ladri!...  Cosa verrebbero a fare  lassù?  -  sghignazzò  uno

    nella folla.

    - Bianca! Bianca! Aiuto! aiuto!

    Giunse  in quel punto trafelato Nanni l'Orbo,  giurando d'averli visti

    lui i ladri, in casa Trao.

    - Con questi occhi!... Uno che voleva scappare dalla finestra di donna

    Bianca,  e s'è cacciato dentro  un'altra  volta,  al  vedere  accorrer

    gente!...

    - Brucia il palazzo, capite? Se ne va in fiamme tutto il quartiere! Ci

    ho  accanto  la  mia  casa,  perdio!  -  Si  mise a vociare mastro-don

    Gesualdo Motta. Gli altri intanto, spingendo, facendo leva al portone,

    riuscirono a penetrare nel cortile,  ad uno ad uno,  coll'erba sino  a

    mezza gamba,  vociando,  schiamazzando,  armati di secchie, di brocche

    piene d'acqua;  compare Cosimo colla scure da far legna;  don Luca  il

    sagrestano  che  voleva  dar di mano alle campane un'altra volta,  per

    chiamare all'armi; Pelagatti così com'era corso, al primo allarme, col

    pistolone arrugginito ch'era andato a scavar di sotto allo strame.

    Dal cortile non si vedeva ancora il  fuoco.  Soltanto,  di  tratto  in

    tratto,  come spirava il maestrale, passavano al di sopra delle gronde

    ondate di  fumo,  che  si  sperdevano  dietro  il  muro  a  secco  del

    giardinetto,  fra  i  rami  dei  mandorli  in fiore.  Sotto la tettoia

    cadente erano accatastate delle fascine;  e in fondo,  ritta contro la

    casa  del  vicino  Motta,  dell'altra  legna grossa: assi d'impalcati,

    correntoni fradici,  una trave di palmento che non si era  mai  potuta

    vendere.

    - Peggio dell'esca, vedete! - sbraitava mastro-don Gesualdo. - Roba da

    fare andare in aria tutto il quartiere!... santo e santissimo!... E me

    la  mettono  poi  contro  il mio muro;  perché loro non hanno nulla da

    perdere, santo e santissimo!...

    In cima  alla  scala,  don  Ferdinando,  infagottato  in  una  vecchia

    palandrana,  con un fazzolettaccio legato in testa,  la barba lunga di

    otto giorni, gli occhi grigiastri e stralunati,  che sembravano quelli

    di  un  pazzo  in quella faccia incartapecorita di asmatico,  ripeteva

    come un'anatra:

    - Di qua! di qua!

    Ma nessuno osava avventurarsi su per la scala che traballava. Una vera

    bicocca  quella  casa:  i  muri  rotti,  scalcinati,  corrosi;   delle

    fenditure  che  scendevano  dal  cornicione sino a terra;  le finestre

    sgangherate e senza vetri; lo stemma logoro, scantonato,  appeso ad un

    uncino  arrugginito,  al  di  sopra  della porta.  Mastro-don Gesualdo

    voleva prima buttar fuori sulla piazza tutta quella legna  accatastata

    nel cortile.

    -  Ci  vorrà  un  mese!  - rispose Pelagatti il quale stava a guardare

    sbadigliando, col pistolone in mano.

    - Santo e santissimo!  Contro il mio  muro  è  accatastata!...  Volete

    sentirla, sì o no?

    Giacalone  diceva  piuttosto  di  abbattere  la  tettoia;  don Luca il

    sagrestano assicurò che pel momento non c'era pericolo: una  torre  di

    Babele!

    Erano accorsi anche altri vicini.  Santo Motta colle mani in tasca, il

    faccione gioviale  e  la  barzelletta  sempre  pronta.  Speranza,  sua

    sorella,  verde  dalla  bile,  strizzando  il  seno  vizzo in bocca al

    lattante, sputando veleno contro i Trao: - Signori miei... guardate un

    po'!...  Ci abbiamo i magazzini qui accanto!  - E se la prendeva anche

    con suo marito Burgio, ch'era lì in maniche di camicia: - Voi non dite

    nulla! State lì come un allocco! Cosa siete venuto a fare dunque?

    Mastro-don  Gesualdo si slanciò il primo urlando su per la scala.  Gli

    altri dietro come tanti leoni per gli stanzoni scuri e vuoti.  A  ogni

    passo un esercito di topi che spaventavano la gente. - Badate! badate!

    Ora  sta per rovinare il solaio!  - Nanni l'Orbo che ce l'aveva sempre

    con quello della finestra, vociando ogni volta: - Eccolo! eccolo!  - E

    nella biblioteca,  la quale cascava a pezzi,  fu a un pelo d'ammazzare

    il sagrestano col pistolone di Pelagatti.  Si udiva sempre nel buio la

    voce chioccia di don Ferdinando il quale chiamava: - Bianca! Bianca! -

    E  don  Diego  che bussava e tempestava dietro un uscio,  fermando pel

    vestito ognuno  che  passava  strillando  anche  lui:  -  Bianca!  mia

    sorella!...

    - Che scherzate? - rispose mastro-don Gesualdo rosso come un pomodoro,

    liberandosi con una strappata. - Ci ho la mia casa accanto, capite: Se

    ne va in fiamme tutto il quartiere!

    Era  un  correre  a  precipizio  nel  palazzo  smantellato;  donne che

    portavano acqua;  ragazzi che si rincorrevano schiamazzando in mezzo a

    quella confusione,  come fosse una festa;  curiosi che girandolavano a

    bocca aperta,  strappando i brandelli di stoffa che  pendevano  ancora

    dalle  pareti,  toccando gli intagli degli stipiti,  vociando per udir

    l'eco degli stanzoni vuoti,  levando il naso in aria ad  osservare  le

    dorature  degli  stucchi,  e  i  ritratti di famiglia: tutti quei Trao

    affumicati che sembravano sgranare gli occhi al vedere tanta marmaglia

    in casa loro. Un va e vieni che faceva ballare il pavimento.

    - Ecco!  ecco!  Or ora rovina il tetto!  - sghignazzava  Santo  Motta,

    sgambettando  in  mezzo  all'acqua: delle pozze d'acqua ad ogni passo,

    fra i mattoni smossi o mancanti.  Don Diego e don Ferdinando,  spinti,

    sbalorditi,  travolti  in  mezzo  alla  folla  che  rovistava  in ogni

    cantuccio la miseria della  loro  casa,  continuando  a  strillare:  -

    Bianca!... Mia sorella!...

    -  Avete  il fuoco in casa,  capite!  - gridò loro nell'orecchio Santo

    Motta. - Sarà una bella luminaria con tutta questa roba vecchia!

    - Per di qua, per di qua! - si udì una voce dal vicoletto.  - Il fuoco

    è lassù, in cucina...

    Mastro Nunzio,  il padre di Gesualdo,  arrampicatosi su di una scala a

    piuoli,  faceva dei gesti in  aria,  dal  tetto  della  sua  casa, 

    dirimpetto. Giacalone aveva attaccata una carrucola alla ringhiera del

    balcone per attinger acqua dalla cisterna dei Motta. Mastro Cosimo, il

    legnaiuolo,   salito  sulla  gronda,   dava  furiosi  colpi  di  scure

    sull'abbaino.

    - No! no! - gridarono di sotto. - Se date aria al fuoco, in un momento

    se ne va tutto il palazzo!

    Don Diego allora si picchiò un colpo in fronte,  balbettando:    -  Le

    carte di famiglia!  Le carte della lite! - E don Ferdinando scappò via

    correndo, colle mani nei capelli, vociando anche lui.

    Dalle finestre, dal balcone, come spirava il vento, entravano a ondate

    vortici  di  fumo  denso,  che  facevano  tossire  don  Diego,  mentre

    continuava a chiamare dietro l'uscio: - Bianca! Bianca! il fuoco!...

    Mastro-don  Gesualdo  il  quale  si  era slanciato furibondo su per la

    scaletta della cucina, tornò indietro accecato dal fumo,  pallido come

    un morto, cogli occhi fuori dell'orbita, mezzo soffocato:

    - Santo e santissimo!... Non si può da questa parte!... Sono rovinato!

    Gli altri vociavano tutti in una volta,  ciascuno dicendo la sua;  una

    baraonda da sbalordire: - Buttate giù le tegole! - Appoggiate la scala

    al fumaiuolo! - Mastro Nunzio,  in piedi sul tetto della sua casa,  si

    dimenava  al pari di un ossesso.  Don Luca,  il sagrestano,  era corso

    davvero ad attaccarsi alle campane. La gente in piazza,  fitta come le

    mosche.  Dal  corridoio riuscì a farsi udire comare Speranza,  che era

    rauca dal gridare strappando i vestiti di dosso alla gente  per  farsi

    largo,  colle unghie sfoderate come una gatta e la schiuma alla bocca:

    - Dalla scala ch'è laggiù,  in fondo al corridoio!  - Tutti corsero da

    quella  parte,  lasciando  don  Diego  che seguitava a chiamare dietro

    l'uscio della sorella: - Bianca!  Bianca!...  - Udivasi  un  tramestìo

    dietro  quell'uscio;  un  correre  all'impazzata quasi di gente che ha

    persa la testa. Poi il rumore di una seggiola rovesciata. Nanni l'Orbo

    tornò a gridare in fondo al corridoio: - Eccolo! eccolo! - E si udì lo

    scoppio del pistolone di Pelagatti, come una cannonata.

    - La Giustizia! Ecco qua gli sbirri! - vociò dal cortile Santo Motta.

    Allora  si  aprì  l'uscio  all'improvviso,  e  apparve  donna  Bianca,

    discinta,  pallida  come  una  morta,  annaspando colle mani convulse,

    senza profferire parola,  fissando sul fratello  gli  occhi  pazzi  di

    terrore  e  d'angoscia.   Ad  un  tratto  si  piegò  sulle  ginocchia,

    aggrappandosi allo stipite, balbettando:

    - Ammazzatemi,  don Diego!...  Ammazzatemi pure!...  ma  non  lasciate

    entrare nessuno qui!...

    Quello che accadde poi,  dietro quell'uscio che don Diego aveva chiuso

    di nuovo spingendo nella cameretta la sorella,  nessuno lo seppe  mai.

    Si  udì  soltanto la voce di lui,  una voce d'angoscia disperata,  che

    balbettava: - Voi?... Voi qui?...

    Accorrevano  il  signor  Capitano,   l'Avvocato  fiscale,   tutta   la

    Giustizia.  Don  Liccio  Papa,  il  caposbirro,  gridando  da lontano,

    brandendo la sciaboletta sguainata: - Aspetta! aspetta! Ferma!  ferma!

    -  E  il  signor  Capitano  dietro di lui,  trafelato come don Liccio,

    cacciando  avanti  il  bastone:  -  Largo!  largo!   Date  passo  alla

    Giustizia!  - L'Avvocato fiscale ordinò di buttare a terra l'uscio.  -

    Don Diego! Donna Bianca! Aprite! Cosa vi è successo?

    S'affacciò  don  Diego,  invecchiato  di  dieci  anni  in  un  minuto,

    allibito, stralunato, con una visione spaventosa in fondo alle pupille

    grige,  con  un  sudore  freddo sulla fronte,  la voce strozzata da un

    dolore immenso:

    - Nulla!... Mia sorella!... Lo spavento!... Non entrate nessuno!...

    Pelagatti inferocito contro Nanni  l'Orbo:  -  Bel  lavoro  mi  faceva

    fare!...  Un  altro po' ammazzavo compare Santo!...  - Il Capitano gli

    fece lui pure una bella lavata di capo: - Con le armi da fuoco!...