Mi aveva mandato a chiamare in fretta, esigendo la mia presenza immediata. Lo trovai disteso sul suo pagliericcio, debole e quasi in punto di morte; tutta la vita che gli rimaneva ancora animava i suoi occhi penetranti, che erano fissi su di un recipiente di vetro, pieno di un liquido roseo.

«Guarda», disse, con voce rotta e introversa, «la vanità dei desideri umani! La seconda volta che le mie speranze stanno per realizzarsi, la seconda volta che vengono distrutte. Guarda quel liquido - ricorderai che cinque anni fa avevo preparato lo stesso liquido, con lo stesso successo; allora, come adesso, le mie labbra assetate aspettavano di assaporare l’elisir immortale - tu me lo strappasti! E adesso è troppo tardi.»

Parlava a fatica, e ricadde sui suoi cuscini. Non potei fare a meno di dire:

«Ma reverendo maestro, come può una cura per l’amore restituirvi la vita?»

Un lieve sorriso gli illuminò il viso mentre io ascoltavo intento la sua risposta quasi inintelligibile. «Una cura per l’amore e per ogni cosa - l’Elisir dell’Immortalità.

Ah! Se potessi berlo adesso, vivrei per sempre!»

Mentre parlava, un lampo dorato balenò dal liquido; una fragranza che ben ricordavo si insinuò nell’aria; egli si tirò su, debole com’era - tese la mano - una esplosione sonora mi scosse - un raggio di fuoco scoccò dall’elisir, e il recipiente di vetro che lo conteneva si sbriciolò in atomi! Volsi gli occhi verso il filosofo; era ricaduto - aveva gli occhi vitrei - i lineamenti rigidi - era morto!

Ma io vissi, e sarei vissuto per sempre! Così aveva detto lo sfortunato alchimista, e per qualche giorno credetti alle sue parole. Ricordavo l’euforica ebbrezza che aveva seguito la mia bevuta furtiva. Riflettei sul mutamento che avevo avvertito nel mio corpo - nella mia anima. La saltellante elasticità di quello - l’euforica leggerezza di questa. Mi esaminai in uno specchio, e non trovai mutamento di sorta nei miei tratti durante i cinque anni che erano trascorsi. Ricordai i colori radiosi e il grato profumo di quella bevanda deliziosa -degna del dono che era in grado di impartire - ero, dunque, IMMORTALE!

Qualche giorno dopo, risi della mia credulità. Il vecchio proverbio, secondo cui nessuno è profeta in patria, era vero per quanto riguardava me e il mio defunto maestro. Gli avevo voluto bene come uomo - lo avevo rispettato come saggio - ma mi facevo beffe dell’idea che avesse potuto comandare le forze delle tenebre, e ridevo dei timori superstiziosi con cui era considerato dal volgo. Era un saggio filosofo, ma non aveva alcuna dimestichezza con altri spiriti se non quelli rivestiti di carne e sangue. La sua scienza era semplicemente umana; e la scienza umana, me ne convinsi ben presto, non avrebbe mai potuto vincere le leggi di natura fino al punto di imprigionare per sempre l’anima nella sua abitazione di carne. Cornelio aveva prodotto una bevanda che rinfrescava l’anima - più inebriante del vino - più dolce e più fragrante di qualunque frutto: possedeva probabilmente forti poteri medicinali, impartendo letizia al cuore e vigore alle membra; ma i suoi effetti si sarebbero logorati; già erano diminuiti nel mio corpo. Ero stato fortunato a inghiottire la salute e uno spirito allegro, e forse una lunga vita, per mano del mio maestro; ma la mia fortuna finiva qui; la longevità era ben diversa dall’immortalità.

Continuai a credere questo per molti anni. A volte un pensiero si insinuava dentro di me - davvero l’alchimista si era ingannato? Ma la mia convinzione consueta era che avrei incontrato il destino di tutti figli di Adamo al momento destinatomi - un po’

tardi, ma pur sempre a un’età naturale. Nondimeno era innegabile che mantenessi un aspetto sorprendentemente giovanile. Si rideva della mia vanità nel consultare lo specchio con tanta frequenza, ma lo consultavo invano - la mia fronte era priva di solchi - le mie guance - i miei occhi - tutta la mia persona si manteneva intatta come a vent’anni.

Ero perplesso. Guardavo la bellezza appassita di Bertha - sembravo piuttosto suo figlio. Gradualmente i nostri vicini cominciarono a fare osservazioni analoghe, e da ultimo scoprii di essere noto come lo «studioso stregato». Bertha stessa cominciò a sentirsi a disagio. Diventò gelosa e irritabile, e alla fine cominciò a interrogarmi. Non avevamo figli; eravamo tutto l’uno per l’altra; e benché, via via che invecchiava, il suo spirito vivace si alleasse un po’ con il malanimo, e la sua bellezza purtroppo scemasse, io la veneravo in fondo al cuore come l’innamorata che avevo idolatrato, la moglie che avevo cercato e conquistato con un amore così perfetto.

Alla fine la nostra situazione si fece intollerabile: Bertha aveva cinquant’anni - e io, venti. Per pura vergogna, avevo in qualche misura adottato le consuetudini di un’età più avanzata; non mi mischiavo più nelle danze con i giovani e allegri, ma il mio cuore saltellava con loro mentre io frenavo i miei piedi; e sembravo un personaggio ben mesto tra i Nestore del villaggio.