Andai a Firenze, a Roma, a Napoli; di lì passai a Tolone, e da ultima raggiunsi quella che da tempo era stata l’ultima meta dei miei desideri: Parigi. A Parigi allora si svolgevano attività frenetiche. Quel povero re di Carlo VI1, ora sano, ora folle, ora monarca, ora umilissimo schiavo, era una vera e propria parodia di umanità. La regina, il Delfino, il duca di Borgogna, alternativamente amici e nemici - ora si incontravano in prodighi banchetti, ora versavano sangue come rivali - ciechi davanti allo stato deplorevole del loro paese e ai pericoli che incombevano su di esso, si davano totalmente al godimento dissoluto o alle lotte selvagge. Il mio carattere non mi abbandonava mai. Ero arrogante e ostinato; amavo lo sfoggio, e soprattutto mi sottraevo a ogni controllo. E chi avrebbe potuto controllarmi a Parigi? I miei giovani amici erano avidi di coltivare passioni che fornivano loro piaceri. Ero considerato avvenente - ero padrone di ogni abilità cavalleresca. Non mi ero unito a nessun partito politico. Diventai un favorito di tutti; la mia presunzione e arroganza venivano perdonate per via della mia giovane età; diventai un fanciullo viziato. Chi avrebbe potuto controllarmi? Non certo le lettere e i consigli di Torella. Solo il bisogno inderogabile, quando mi visitava nella forma aborrita di un borsellino vuoto. Ma c’era il mezzo di riempire questo vuoto. Un acro dopo l’altro, una tenuta dopo l’altra, vendetti. Il mio abito, i miei gioielli, i miei cavalli e il loro equipaggiamento, non avevano quasi rivali nella sgargiante Parigi, mentre le terre della mia eredità passavano nel possesso di altri.

Il duca di Orléans cadde in un’imboscata e fu assassinato dal duca di Borgogna.

Paura e terrore si impadronirono di tutta Parigi. Il Delfino e la regina si barricarono; ogni piacere fu sospeso. Mi stancai di questo stato di cose, e il mio cuore si mise a 1 O Carlo lo Stolto (1368-1422), re di Francia dal 1380. Sconfitto dal sovrano inglese Enrico V ad Agincourt (1415).

sospirare i luoghi della mia fanciullezza. Ero quasi in miseria, ma pensavo ancora di tornare laggiù, di reclamare la mia sposa, e di ricostruire le mie fortune. Qualche impresa fortunata come mercante mi avrebbe reso di nuovo ricco. Nondimeno, non sarei tornato in vesti umili. La mia ultima azione fu liquidare la mia tenuta superstite vicino ad Albaro per la metà del suo valore, dietro denaro contante. Dopodiché spedii ogni sorta di artigiani, arazzi, mobilio di splendore regale, ad arredare l’ultimo campione della mia eredità, il mio palazzo di Genova. Indugiai ancora un poco, vergognandomi della parte del figliol prodigo di ritorno, che temevo di dover recitare.

Mandai i miei cavalli. Un incomparabile ginnetto spagnolo spedii alla mia promessa sposa, la bardatura sfavillante di gioie e di stoffa dorata. Dappertutto feci intrecciare le iniziali di Giulietta e del suo Guido.