Il mio dono trovò favore agli occhi suoi e di suo padre.
Tuttavia tornare come notorio scialacquatore, guardato con uno stupore impertinente, forse addirittura con disprezzo, e affrontare singolarmente i rimbrotti o gli scherni dei miei concittadini, non era una prospettiva invitante. A mo’ di scudo tra me e le censure, invitai alcuni tra i più sconsiderati dei miei compagni a venir meco: così andai armato contro il mondo, celando un sentimento astioso, mezzo di paura e mezzo di penitenza, dietro un atteggiamento di sfida e uno sfoggio insolente di compiaciuta vanità.
Arrivai a Genova. Calcai il pavimento del mio palazzo ancestrale. Il mio passo fiero non era un interprete sincero del mio cuore, poiché dentro sentivo che, benché circondato da ogni lusso, ero un pezzente. La prima mossa che avessi compiuto reclamando Giulietta mi avrebbe ampiamente denunciato come tale. Leggevo il disprezzo o la pietà nell’espressione di tutti. Immaginai, tanto incline è la coscienza a immaginare quello che si merita, che ricchi e poveri, giovani e vecchi, tutti mi considerassero con derisione. Torella non mi venne incontro. Non c’era da meravigliarsi che il mio secondo padre si aspettasse da me la deferenza di un figlio, manifestata nell’essere il primo a fargli visita. Ma punto e irritato da un senso delle mie follie e del mio demerito, mi sforzavo di dare la colpa agli altri. Ogni notte celebrammo orge a Palazzo Carega. Alle notti insonni, turbolente, tenevano dietro mattine inquiete, supine. All’Ave Maria ci mostravamo tutti agghindati nelle strade, schernendo i sobri cittadini, gettando sguardi insolenti alle donne che si ritraevano.
Giulietta non era tra loro… no, no; se vi fosse stata, la vergogna mi avrebbe distolto, anche qualora l’amore non mi avesse gettato ai suoi piedi.
Mi annoiai di tutto questo. Improvvisamente andai a trovare il marchese. Era alla sua villa, una tra le tante che adornano il sobborgo di San Pietro d’Arena. Era il mese di maggio - i germogli degli alberi da frutta impallidivano dentro un fogliame spesso e verde; l’uva sbocciava; il terreno era coperto di fiori d’olivo caduti; la lucciola era sospesa nella siepe di mirto; cielo e terra indossavano un mantello di straordinaria bellezza. Torella mi accolse con cortesia, anche se con serietà; e persino l’ombra del suo dispiacere si dissolse ben presto. Una mia vaga somiglianza con mio padre - un po’ l’espressione, un po’ il tono di semplicità giovanile, ancora avvertibile malgrado i miei misfatti - ammorbidì il cuore di quel buon vecchio. Mandò a chiamare sua figlia
- mi presentò a lei come il suo promesso. All’ingresso di lei la stanza si soffuse di una luce sacrale. Era un aspetto angelico, il suo - quegli occhi grandi e morbidi, quelle guance piene, con le fossette, e quella bocca di dolcezza infantile che esprimeva la rara unione di felicità e amore. Per prima cosa fui sopraffatto dallo stupore ammirato.
È mia! Fu la seconda fiera emozione, e la bocca mi si curvò in una smorfia di altero trionfo. Non sarei stato l’ enfant gaté delle beltà di Francia se non avessi imparato l’arte di compiacere il molle cuore di una donna. La deferenza che rivolgevo a questo sesso era tanto più in contrasto con l’arroganza che mostravo agli uomini. Iniziai il mio corteggiamento esibendo mille galanterie a Giulietta che, votata a me dall’infanzia, non aveva mai consentito la devozione di nessun altro; e che, pur abituata a espressioni di ammirazione, non era iniziata al linguaggio degli innamorati.
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