Essi fuggono via

da qualche remoto sfacelo;

ma quale, ma dove egli sia,

non sa né la terra né il cielo.

 

Si sente un galoppo lontano

più forte,

che viene, che corre nel piano:

la Morte! la Morte! la Morte!

 

IV

IL MORTICINO

 

Non è Pasqua d’ovo?

 

Per oggi contai

di darteli, i piedi.

È Pasqua: non sai?

È Pasqua: non vedi

il cercine novo?

 

Andiamoci, a mimmi,

lontano lontano...

Dan don... Oh! ma dimmi:

non vedi ch’ho in mano

il cercine novo,

 

le scarpe d’avvio?

Sei morto: non vedi,

mio piccolo cieco!

Ma mettile ai piedi,

ma portale teco,

ma diglielo a Dio,

 

che mamma ha filato

sei notti e sei dì,

sudato, vegliato,

per farti, oh! così!

le scarpe d’avvio!

 

V

IL ROSICCHIOLO

 

Per te l’ha serbato, soltanto

per te, povero angiolo; ed eccolo

o pianto!

lo vedi? un rosicchiolo secco.

 

Moriva sul letto di strame;

tu, bimbo, dormivi sicuro.

Che pianto! che fame!

ma c’era un rosicchiolo duro.

 

Ma ella guardava lunghe ore,

guardava il suo bimbo, e morì,

di pianto, di fame, d’amore;

e... guarda! il rosicchiolo è qui.

 

VI

ALLORA

 

Allora...in un tempo assai lunge

felice fui molto; non ora:

ma quanta dolcezza mi giunge

da tanta dolcezza d’allora!

 

Quell’anno! per anni che poi

fuggirono, che fuggiranno,

non puoi, mio pensiero, non puoi,

portare con te, che quell’anno!

 

Un giorno fu quello, ch’è senza

compagno, ch’è senza ritorno;

la vita fu vana parvenza

sì prima sì dopo quel giorno!

 

Un punto!... così passeggero,

che in vero passò non raggiunto,

ma bello così, che molto ero

felice, felice, quel punto!

 

VII

PATRIA

 

Sogno d’un dì d’estate.

 

Quanto scampanellare

tremulo di cicale!

Stridule pel filare

moveva il maestrale

le foglie accartocciate.

 

Scendea tra gli olmi il sole

in fascie polverose:

erano in ciel due sole

nuvole, tenui, rose:

due bianche spennellate

 

in tutto il ciel turchino.

 

Siepi di melograno,

fratte di tamerice,

il palpito lontano

d’una trebbïatrice,

l’angelus argentino...

 

dov’ero? Le campane

mi dissero dov’ero,

piangendo, mentre un cane

latrava al forestiero,

che andava a capo chino.

 

 VIII

IL NUNZIO

 

Un murmure, un rombo....

 

Son solo: ho la testa

confusa di tetri

pensieri. Mi desta

 

quel murmure ai vetri.

Che brontoli, o bombo?

 

che nuove mi porti?

 

E cadono l’ore

giú giù, con un lento

gocciare. Nel cuore

lontane risento

parole di morti...

 

Che brontoli, o bombo?

 

che avviene nel mondo?

Silenzio infinito.

Ma insiste profondo,

solingo smarrito,

quel lugubre rombo.

 

IX

LA CUCITRICE

 

L’alba per la valle nera

sparpagliò le greggi bianche:

tornano ora nella sera

e s’arrampicano stanche:

una stella le conduce.

 

Torna via dalla maestra

la covata, e passa lenta:

c’è del biondo alla finestra

tra un basilico e una menta:

è Maria che cuce e cuce.

 

Per chi cuci e per che cosa?

un lenzuolo ? un bianco velo ?

Tutto il cielo è color rosa,

rosa e oro, e tutto il cielo

sulla testa le riluce.

 

Alza gli occhi dal lavoro:

una lagrima? un sorriso?

Sotto il cielo rosa e oro,

chini gli occhi, chino il viso,

ella cuce, cuce, cuce.

 

 

X

SERA FESTIVA

 

O mamma, o mammina, hai stirato

la nuova camicia di lino ?

Non c’era laggiù tra il bucato,

sul bossolo o sul biancospino.

Su gli occhi tu tieni le mani. . .

Perchè? non lo sai che domani ... ?

din don dan, din don dan.

 

Si parlano i bianchi villaggi

cantando in un lume di rosa:

dall’ombra de’ monti selvaggi

si sente una romba festosa.

 

Tu tieni a gli orecchi le mani...

tu piangi; ed è festa domani. .

din don dan, din don dan.

 

Tu pensi . . . oh! ricordo: la pieve . . .

quanti anni ora sono ? una sera . .

il bimbo era freddo, di neve;

il bimbo era bianco, di cera:

allora sonò la campana

(perchè non pareva lontana ?)

din don dan, din don dan.

 

Sonavano a festa, come ora,

per l’angiolo; il nuovo angioletto

nel cielo volava a quell’ora;

ma tu lo volevi al tuo petto,

con noi, nella piccola zana:

gridavi; e lassù la campana. . .

din don dan, din don dan.

 

RICORDI

 

I

ROMAGNA

a Severino

 

Sempre un villaggio, sempre una campagna

mi ride al cuore (o piange), Severino:

il paese ove, andando, ci accompagna

l’azzurra vision di San Marino:

 

sempre mi torna al cuore il mio paese

cui regnarono Guidi e Malatesta,

cui tenne pure il Passator cortese,

re della strada, re della foresta.

 

Là nelle stoppie dove singhiozzando

va la tacchina con l’altrui covata,

presso gli stagni lustreggianti, quando

lenta vi guazza l’anatra iridata,

 

oh! fossi io teco; e perderci nel verde,

e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,

gettarci l’urlo che lungi si perde

dentro il meridiano ozio dell’aie;

 

mentre il villano pone dalle spalle

gobbe la ronca e afferra la scodella,

e ‘1 bue rumina nelle opache stalle

la sua laborïosa lupinella.

 

Da’ borghi sparsi le campane in tanto

si rincorron coi lor gridi argentini:

chiamano al rezzo, alla quiete, al santo

desco fiorito d’occhi di bambini.

 

Già m’accoglieva in quelle ore bruciate

sotto ombrello di trine una mimosa,

che fioria la mia casa ai dì d’estate

co’ suoi pennacchi di color di rosa;

 

e s’abbracciava per lo sgretolato

muro un folto rosaio a un gelsomino;

guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,

chiassoso a giorni come un biricchino.

 

Era il mio nido: dove immobilmente,

io galoppava con Guidon Selvaggio

e con Astolfo; o mi vedea presente

l’imperatore nell’eremitaggio.

 

E mentre aereo mi poneva in via

con l’ippogrifo pel sognato alone,

o risonava nella stanza mia

muta il dettare di Napoleone;

 

udia tra i fieni allor allor falciati

da’ grilli il verso che perpetuo trema,

udiva dalle rane dei fossati

un lungo interminabile poema.

 

E lunghi, e interminati, erano quelli

ch’io meditai, mirabili a sognare:

stormir di frondi, cinguettio d’uccelli,

risa di donne, strepito di mare.

 

Ma da quel nido, rondini tardive,

tutti tutti migrammo un giorno nero;

io, la mia patria or è dove si vive:

gli altri son poco lungi; in cimitero.

 

Così più non verrò per la calura

tra que’ tuoi polverosi biancospini,

ch’io non ritrovi nella mia verzura

del cuculo ozïoso i piccolini,

 

Romagna solatia, dolce paese,

cui regnarono Guidi e Malatesta;

cui tenne pure il Passator cortese,

re della strada, re della foresta.

 

II

ANNIVERSARIO

 

Sono più di trent’anni e di queste ore,

mamma, tu con dolor m’hai partorito;

ed il mio nuovo piccolo vagito

t’addolorava più del tuo dolore.

 

Poi tra il dolore sempre ed il timore,

o dolce madre, m’hai di te nutrito:

e quando fui del corpo tuo vestito,

quand’ebbi nel mio cuor tutto il tuo cuore;

 

allor sei morta; e son vent’anni: un giorno!

già gli occhi materni io penso a vuoto;

il caro viso già mi si scolora,

 

mamma, e più non ti so. Ma nel soggiorno

freddo de’ morti, nel tuo sogno immoto,

tu m’accarezzi i riccioli d’allora.

 

31 di dicembre 1889.

 

 

III

RIO SALTO

 

Lo so: non era nella valle fonda

suon che s’udia di palafreni andanti:

era l’acqua che giù dalle stillanti

tegole a furia percotea la gronda.

 

Pur via e via per l’infinita sponda

passar vedevo i cavalieri erranti;

scorgevo le corazze luccicanti,

scorgevo l’ombra galoppar sull’onda.

 

Cessato il vento poi, non di galoppi

il suono udivo, né vedea tremando

fughe remote al dubitoso lume;

 

ma voi solo vedevo, amici pioppi!

Brusivano soave tentennando

lungo la sponda del mio dolce fiume.

 

IV

IL MANIERO

 

Te sovente, o tra boschi arduo maniero,

popolai di baroni e di vassalli,

mentre i falchetti udia squittio su’ gialli

merli e radendo il baluardo nero.

 

Pei vetri un lume trascorrea leggiero,

e nitrivano fervidi i cavalli:

a uno squillo che uscia giù dalle valli,

apria le imposte il maggiordomo austero;

 

e nel fosso stridea la fragorosa

saracinesca. Or tu, canto divino,

sceso con l’ombre nel mio cuor cadenti,

 

dove sei? Di tramonti, ora, pensosa,

là sur un torvo giogo d’Apennino

qualch’elce nera lo ripete ai venti.

 

 

 

 

 

 

 

V

IL BOSCO

 

O vecchio bosco pieno d’albatrelli,

che sai di funghi e spiri la malìa,

cui tutto io già scampanellare udia

di cicale invisibili e d’uccelli:

 

in te vivono i fauni ridarelli

ch’hanno le sussurranti aure in balìa;

vive la ninfa, e i passi lenti spia,

bionda tra le interrotte ombre i capelli.

 

Di ninfe albeggia in mezzo alla ramaglia

or sì or no, che se il desio le vinca,

l’occhio alcuna ne attinge, e il sol le bacia.

 

Dileguano; e pur viva è la boscaglia,

viva sempre ne’ fior della pervinca

e nelle grandi ciocche dell’acacia.

 

VI

IL FONTE

 

Mentre con lieve strepito perenne

geme tra il caprifoglio una fontana,

trema un trotto tranquillo, e s’allontana

per le fatate rilucenti Ardenne.

 

Qui pontò i piedi e s’alzò sulle penne

quell’Ippogrifo, qui stallò l’Alfana:

Brigliadoro dall’India Sericana

in questo trebbio il lungo error sostenne:

 

che qui l’abbeverava il paladino,

e meditava al mormorio del fonte

senza piegar la ferrea persona:

 

poi seguì la sua corsa e il suo destino;

così che intorno per la valle e il monte

ancor la notte il trotto ne rintrona.

 

 

 

 

 

VII

ANNIVERSARIO

 

Sappi—e forse lo sai, nel camposanto—

la bimba dalle lunghe anella d’oro,

e l’altra che fu l’ultimo tuo pianto,

sappi ch’io le raccolsi e che le adoro.

 

Per lor ripresi il mio coraggio affranto,

e mi detersi l’anima per loro:

hanno un tetto, hanno un nido, ora, mio vanto;

e l’amor mio le nutre e il mio lavoro.

 

Non son felici, sappi, ma serene:

il lor sorriso ha una tristezza pia:

io le guardo—o mia sola erma famiglia !—

 

sempre a gli occhi sento che mi viene

quella che ti bagnò nell’agonia

non terminata lagrima le ciglia.

 

31 di dicembre 1890.

 

VIII

I PUFFINI DELL’ADRIATICO

 

Tra cielo e mare (un rigo di carmino

recide intorno l’acque marezzate)

parlano. È un’alba cerula d’estate:

non una randa in tutto quel turchino.

 

Pur voci reca il soffio del garbino

con ozïose e tremule risate.

Sono i puffini: su le mute ondate

pende quel chiacchiericcio mattutino.

 

Sembra un vociare, per la calma, fioco,

di marinai, ch’ad ora ad ora giunga

tra ‘l fievole sciacquìo della risacca;

 

quando, stagliate dentro l’oro e il fuoco,

le paranzelle in una riga lunga

dondolano sul mar liscio di lacca.

 

 

 

 

IX

CAVALLINO

 

O bel clivo fiorito Cavallino

ch’io varcai co’ leggiadri eguali a schiera

al mio bel tempo; chi sa dir se l’era

d’olmo la tua parlante ombra o di pino?

 

Era busso ricciuto o biancospino,

da cui dorata trasparia la sera?

C’è un campanile tra una selva nera,

che canta, bianco, l’inno mattutino?

 

Non so: ché quando a te s’appressa il vano

desio, per entro il cielo fuggitivo

te vedo incerta visïon fluire.

 

So ch’or sembri il paese allor lontano

lontano, che dal tuo fiorito clivo

io rimirai nel limpido avvenire.

 

X

LE MONACHE Dl SOGLIANO

 

Dal profondo geme l’organo

tra ‘l fumar de’ cerei lento:

c’è un brusio cupo di femmine

nella chiesa del convento:

 

un vegliardo austero mormora

dall’altar suoi brevi appelli:

dietro questi s’acciabattano

delle donne i ritornelli.

 

Ma di mezzo a un lungo gemito,

da invisibile cortina,

s’alza a vol secura ed agile

una voce di bambina;

 

e dintorno a questa ronzano,

tutte a volo, unite e strette,

e la seguono e rincorrono,

voci d’altre giovinette.

 

Per noi prega, o santa Vergine,

per noi prega, o Madre pia;

per noi prega, esse ripetono,

o Maria! Maria! Maria!

 

Quali note! Par che tinnino

nell’infrangersi del cuore:

paion umide di lagrime,

paion ebbre di dolore.

 

Oh! qual colpa macchiò l’anima

di codeste prigioniere?

qual dolor poté precorrervi

la fiorita del piacere?

 

Queste bimbe, queste vergini

che offesero Dio santo,

che perdòno ne sospirano

con sì lungo inno di pianto?

 

Manda l’organo i suoi gemiti

tra’l fumar de’ cerei lento:

di lontane plaghe sembrano

cupe e fredde onde di vento...

 

Dalle plaghe inaccessibili

cupo e freddo il vento romba:

già sottentra ai lunghi gemiti

il silenzio della tomba.

 

XI

IL SANTUARIO

 

Come un’arca d’aromi oltremarini,

il santuario, a mezzo la scogliera,

esala ancora l’inno e la preghiera

tra i lunghi intercolunnii de’ pini;

 

e trema ancor de’ palpiti divini

che l’hanno scosso nella dolce sera,

quando dalla grand’abside severa

uscia l’incenso in fiocchi cilestrini.

 

S’incurva in una luminosa arcata

il ciel sovr’esso: alle colline estreme

il Carro e fermo e spia l’ombra che sale.

 

Sale con l’ombra il suon d’una cascata

che grave nel silenzio sacro geme

con un sospiro eternamente uguale.

 

XII

ANNIVERSARIO

 

Già li vedevo gli occhi tuoi, soavi

seguirmi sempre per il mio cammino,

chinarsi mesti sul mio capo chino,

volgersi, al mio dubbiar, dubbiosi e gravi.

 

Come col dolor tuo mi consolavi,

come, o cuore vivente oltre il destino!

come al tuo collo ti tornai bambino

piangendo il pianto che su me versavi!

 

Or che rivivo alfine, or che trovai

ah! le due parti del tuo cuore infranto,

ora quell’occhio più che mai materno...

 

No: tu con gli altri, al freddo, all’acqua, stai,

con gli altri, solitari in camposanto,

in questa sera torbida d’inverno.

 

31 di dicembre 1891.

 

PENSIERI

 

I

TRE VERSI DELL’ASCREO

 

“Non di perenni fiumi passar l’onda,

che tu non preghi volto alla corrente

pura, e le mani tuffi nella monda

acqua lucente”

 

dice il poeta. E così guarda, o saggio,

tu nel dolore, cupo fiume errante:

passa, e le mani reca dal passaggio

sempre più sante...

 

II

I TRE GRAPPOLI

 

Ha tre, Giacinto, grappoli la vite.

Bevi del primo il limpido piacere;

bevi dell’altro l’oblio breve e mite;

e... più non bere:

 

chè sonno è il terzo, e con lo sguardo acuto

nel nero sonno vigila, da un canto,

sappi, il dolore; e alto grida un muto

pianto già pianto.

 

III

SAPIENZA

 

Salì pensoso la romita altura

ove ha il suo nido l’aquila e il torrente,

e centro della lontananza oscura

sta, sapïente.

 

Oh! scruta intorno gl’ignorati abissi:

più ti va lungi l’occhio del pensiero,

più presso viene quello che tu fissi:

ombra e mistero.

 

IV

CUORE E CIELO

 

Nel cuor dove ogni visïon s’immilla,

e spazio al cielo ed alla terra avanza,

talor si spenge un desiderio, e brilla

una speranza:

 

come nel cielo, oceano profondo,

dove ascendendo il pensier nostro annega,

tramonta un’Alfa, e pullula dal fondo

cupo un’Omega.

 

V

MORTE E SOLE

 

Fissa la morte: costellazïone

lugubre che in un cielo nero brilla:

breve parola, chiara visïone:

leggi, o pupilla.

 

Non puoi. Così, se fissi mai l’immoto

astro nei cieli solitari ardente,

se guardi il sole, occhio, che vedi ? Un vòto

vortice, un niente.

 

 

 

 

 

VI

PIANTO

 

Più bello il fiore cui la pioggia estiva

lascia una stilla dove il sol si frange;

più bello il bacio che d’un raggio avviva

occhio che piange.

 

VII

CONVIVIO

 

O convitato della vita, è l’ora.

Brillino rossi i calici di vino;

tu né bramoso più, né sazio ancora,

lascia il festino.

 

Splendano d’aurea luce i lampadari,

fragri la rosa e il timo dell’Imetto,

sorrida in cerchio tuttavia di cari

capi il banchetto:

 

tu sorgi e... Triste, su la mensa ingombra,

delle morenti lampade lo svolo

lugubre lungo! triste errar nell’ombra,

ultimo, solo!

 

VIII

IL PASSATO

 

Rivedo i luoghi dove un giorno ho pianto:

un sorriso mi sembra ora quel pianto.

Rivedo i luoghi, dove ho già sorriso...

Oh! come lacrimoso quel sorriso!

 

IX

TRA IL DOLORE E LA GIOIA

 

Vidi il mio sogno sopra il monte in cima;

era una striscia pallida; co’ suoi

boschi d’un verde quale mai né prima

vidi né poi.

 

Prima, il sonante nembo coi velari,

tutto ascondeva, delle nubi nere:

poi, tutto il sole disvelò del pari

bello a vedere.

 

Ma quel mio sogno al raggio d’un’aurora

nuova m’apparve e sparve in un baleno,

che il ciel non era torbo più né ancora

tutto sereno.

 

X

NEL CUORE UMANO

 

Non ammirare, se in un cuor non basso,

cui tu rivolga a prova, un pungiglione

senti improvviso: c’è sott’ogni sasso

lo scorpïone.

 

Non ammirare, se in un cuor concesso

al male, senti a quando a quando un grido

buono, un palpito santo: ogni cipresso

porta il suo nido.

 

 

 

CREATURE

 

I

FIDES

 

Quando brillava il vespero vermiglio,

e il cipresso pareva oro, oro fino,

la madre disse al piccoletto figlio:

Così fatto è lassù tutto un giardino.

 

Il bimbo dorme, e sogna i rami d’oro,

gli alberi d’oro, le foreste d’oro;

mentre il cipresso nella notte nera

scagliasi al vento, piange alla bufera.

 

II

CEPPO

 

È mezzanotte. Nevica. Alla pieve

suonano a doppio; suonano l’entrata.

Va la Madonna bianca tra la neve:

spinge una porta; l’apre: era accostata.

Entra nella capanna: la cucina

e piena d’un sentor di medicina.

Un bricco al fuoco s’ode borbottare:

piccolo il ceppo brucia al focolare.

 

Un gran silenzio. Sono a messa? Bene.

Gesu trema; Maria si accosta al fuoco.

Ma ecco un suono, un rantolo che viene

di su, sempre più fievole e più roco.

Il bricco versa e sfrigge: la campana,

col vento, or s’avvicina, or s’allontana.

La Madonna, con una mano al cuore,

geme: Una mamma, figlio mio, che muore!

 

E piano piano, col suo bimbo fiso

nel ceppo, torna all’uscio, apre, s’avvia.

Il ceppo sbracia e crepita improvviso,

il bricco versa e sfrigola via via:

quel rantolo... è finito. O Maria stanca!

bianca tu passi tra la neve bianca.

Suona d’intorno il doppio dell’entrata:

voce velata, malata, sognata.

 

III

MORTO

 

Manina chiusa, che nel sonno grande

stringi qualcosa, dimmi cosa ci hai!

Cosa ci ha? cosa ci ha? Vane domande:

quello che stringe, niuno saprà mai.

 

Te l’ha portato l’Angelo, il suo dono:

nel sonno, sempre lo stringevi, un dono.

La notte c’era, non c’era il mattino.

Questo ti resterà. Dormi, bambino.

 

IV

ORFANO

 

Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca.

Senti: una zana dondola pian piano.

Un bimbo piange, il piccol dito in bocca;

canta una vecchia, il mento sulla mano.

 

La vecchia canta: Intorno al tuo lettino

c’è rose e gigli, tutto un bel giardino.

Nel bel giardino il bimbo s’addormenta.

La neve fiocca lenta, lenta, lenta.

 

 

 

V

ABBANDONATO

 

Nella soffitta è solo, è nudo, muore.

Stille su stille gemono dal tetto.

 

Gli dice il Santo—Ancora un po’; fa’ cuore—

Mormora—Il pane; è tanto che l’aspetto—

 

L’Angelo dice—or viene il Salvatore—

Sospira—un panno pel mio freddo letto—

 

Maria dice—È finito il tuo dolore!—

—oh! mamma io voglio, e dormire al suo petto—

 

Lagrima a goccia a goccia la bufera

nella soffitta.